Andrea Zanzotto, Sull'altopiano

03-01-2008

Sull'altopiano di Zanzotto gli stessi cieli di Giorgione, di Domenico Cacopardo

Non dobbiamo scoprire oggi Andrea Zanzotto, il cui nome percorre da tanto tempo i sentieri della migliore letteratura nazionale. Non quella da tre palle un soldo, tanto in voga (e tanto lucrosa), ma quella di sostanza, quella che dà un’impronta a un periodo, assumendo le connotazioni di metastoria, e, quindi, iscrivendosi alla saga nazionale. Una iscrizione che, fatalmente, colloca l’opera di quel lavoro poetico che Georgyi Lucás indicava in corretta espressione politica. Non che Zanzotto sia un poeta, uno scrittore di regime (e di quale regime, poi?), ma Zanzotto è di sicuro un interprete privilegiato dello spirito del tempo nostro e del nostro paese. In più, va detto che, mentre si teorizza la nascita e lo sviluppo di una weltliteratur, una letteratura mondiale che renderebbe inconsistenti le letterature nazionali, l’esempio di Zanzotto smentisce clamorosamente l’asserzione. Infatti, la letteratura italiana trova con lui, una sostanza universale, una solida qualità che esalta i suoi elementi tipici, quelli del canone occidentale nella nostra accezione.
Questo lungo preambolo dà luogo a un vivo apprezzamento all’editore leccese Manni che, pubblicando Sull’altopiano, a cura di Francesco Carbognin, consegna ai lettori racconti e prose zanzottiani degli anni dal 1942 al 1954, con un’appendice di scritti giovanili. Questi scritti giovanili costituiscono un documento chiave per comprendere i processi di maturazione dell’autore, la modalità di costruzione delle storie e del modo di narrarle.
A cominciare da quello che dà il titolo alla raccolta (che si trova in due momenti, nel contesto della raccolta e dell’appendice, in una versione più ampia, testimonianza di uno scrivere volto al togliere, all’asciugare), un racconto di grande pathos, ambientato tra le familiari montagne Nord-orientali. …Vernai, sparsa per tutto l’altopiano, non appariva, e le sue case, distanti e quasi ignote l’una all’altra, si lasciavano seppellire dalla grande grandine… Risedemmo; il parroco non arrivava coi piedi a terra, perché era piccolo come la sorella, aveva i capelli bianchi e corona attorno al roseo e la sua veste, forse un tempo nera, era ormai completamente grigia… egli si lamentava del vento, poi della neve e delle intemperie invernali del luogo, da cui tuttavia non si sarebbe mai mosso per sua volontà… un raggio giunse improvviso a ferire i fiori rosei del liquore,, i bicchierini nella mezza tenebra della stanza e il gusto sopito nelle gole e nei cuori. La sorella corse alla finestra e la spalancò, cresceva a vista d’occhio il chiarore, era freddo, freddo, acqua lucente stagnava nel cortile e qua e là grandine come neve… davanti a me era la mia ombra di straniero, scavata da una lampada che qualcuno aveva accesa nella cucina, il campanello sonava a rosario, lontano presso l’azzurro, e forse qualche vecchio cominciava a muoversi, a quel segno, verso la chiesa, sul cristallo oscurato delle strade…
Il confronto con la prima stesura giovanile, mostra come Zanzotto abbia saputo, asciugando, conferire incisività al racconto, definire in modo impalpabile un’atmosfera singolare, di cui il lettore diviene partecipe e protagonista. Per spiegarmi meglio, dirò che questa scrittura fa venire alla mente Giorgione e i suoi dipinti di maggiori dimensioni, nel quale uomini e natura costituiscono un insieme tipico che dialoga con il visitatore e lo chiama a sé come un altro degli elementi della tela. La messa in scena di Zanzotto, i cui cieli sono gli stessi di Giorgione, diverge solo sul punto della sensualità: esplicita e manifesta in questo, nascosta con delicatezza nel nostro, i cui persistenti fattori di sensualità, peraltro, emergono in modo irrefrenato: E finisce la storia di Augusta e il becchino getta le ultime palate di terra sulla cassa, mentre le poche connette che l’hanno accompagnata pregustano il bicchiere di vino della osteria vicina… quelle fanciulle che ci avevano guardati con amore in altro tempo, anch’esse, unica certezza e quiete, cominciavano a divenirci estranee… nulla io sarei se, aprendo in certe notti la finestra ad occidente, non vedessi in distanza, sotto le stelle la cupa massa dell’altopiano di Myane folto al suo vertice di calmi lumi terrestri, che, braci forse di un altro incendio, valgono all’ottuso mio spirito…
Certo, la tentazione, ora, è quella di dare altri esempi di una prosa scritta con l’inchiostro indelebile dell’Arte. Ma ciò toglierebbe al lettore il gusto di assaporare questa prosa nel testo pubblicato, il cui studio accurato farebbe di certo bene a tanti che, col consenso delle classifiche, mettono insieme molte, dimenticabili parole.