C'è un grande prato verde - Secondo tempo

19-06-2013

Marco Malvaldi anteprima. Perché, secondo te uno che di mestiere gioca a pallone di solito è un genio?

Si prendano 38 scrittori e gli si chieda di raccontare il campionato di calcio 2012-2013, una giornata dopo l’altra. E’ quanto ha fatto Manni Editori, producendo un più che una semplice raccolta di racconti una sorta di stralunato saggio narrativo sulla società italiana, ancora una volta affermando l’importanza dello sguardo letterario e della sua capacità investigativa del reale. Tra gli autori coinvolti nel progetto C’è un grande prato verde – in libreria dal 29 giugno con la cura di Carlo D’Amicis -  figurano Roberto Alajmo, Gianfranco Calligarich, Luigi R. Carrino, Aldo Nove, Igiaba Scego, Fulvio Ervas e Marco Malvaldi (Odore di chiuso, Sellerio), di cui proponiamo l’interpretazione della 15° giornata.

 
Uno dei più grandi fastidi per chi ci vive accanto, moglie, padre o badante che sia, nasce dal vedere che delle persone ritenute intelligenti si comportano talvolta in modo incomprensibile. E, quando l’osservazione dei fatti contrasta con la teoria che abbiamo elaborato, l’essere umano di solito cerca di capire meglio cosa succede ponendo delle domande.
Io, per esempio, mi ritengo una persona di media intelligenza, con una certa dose di buona educazione e una spiccata propensione alla comunicatività; caratteristiche alle quali rinuncio volontariamente per novanta minuti alla settimana, quando gioca il Torino. Per cui, quando mi sono seduto sul divano e ho acceso la televisione sintonizzandomi sul derby in procinto di iniziare, sapevo benissimo che entro pochi minuti mia moglie avrebbe cominciato a porsi delle domande. E, di conseguenza, a fare delle domande a me.
Come dice Sherlock Holmes, per capire un fenomeno l’importante non è tanto dare delle risposte, ma iniziare facendo delle domande corrette. Riporto quindi, così come sono stata fatte a me, le questioni che mi sono state poste nel corso della partita, lasciando al lettore il giudizio sulla loro cogenza.
Dette domande, per non fare confusione, verranno riportate in ordine cronologico; e, siccome in queste pagine vorrei tentare una analisi culturale, sociologica e biologica del comportamento delle persone di fronte ad una partita di calcio, il linguaggio utilizzato sarà  il  più  formale  e  distaccato  possibile,  in  modo  da  essere  rispondente ai criteri impliciti di correttezza, elaboratezza e precisione necessari ogni qualvolta si tenti di fare cultura con la Q maiuscola.
Domanda numero 1: Ce la fai a essere un pochino meno sboccato?
Tale domanda mi è stata posta da mia moglie a partita non ancora iniziata, e precisamente all’annuncio da parte del telecronista che Giorgio  Chiellini  non  sarebbe  stato  schierato  in  campo.  Ritengo necessario spiegare che tale giocatore, essendo io un pisano che tifa Toro, essendo contemporaneamente juventino e livornese risulta particolarmente inviso alla mia persona. L’interrogazione  è  avvenuta  in  seguito  alle  mie  osservazioni, concernenti la speranza che detto giocatore fosse impedito a partecipare alla contesa in quanto affetto da patologie riguardanti esclusivamente il colon retto, e conseguenti analogie tra il luogo dove mi auguravo che detto giocatore si trovasse al momento (cioè il cesso) e la città dove era nato ed aveva trascorso la giovinezza.
Domanda numero 2: Ma non te ne rendi conto che poi il bimbo le ridice?
La domanda, chiaramente retorica e provocatoria, mi è stata rivolta al dodicesimo minuto, quando Meggiorini si è trovato libero in area juventina grazie a una distrazione di Bonucci e ha visto bene di mirare al cartellone pubblicitario a sinistra della porta di Buffon, sprecando così una occasione di platino. Le mie susseguenti infrazioni al Secondo Comandamento, nello specifico consistenti nell’irriguardoso accostamento del nome di Nostro Signore a un rappresentante della specie degli ungulati, hanno scatenato l’ilarità di mio figlio Leonardo, di anni tre, il quale ha cominciato a ridere e a saltellare  per  tutta  la  casa  ripetendo  con  squillante  voce  infantile l’orrenda bestemmia.
Domanda numero 3: Perché, secondo te uno che di mestiere gioca a pallone di solito è un genio?
La domanda in questione mi è stata posta al trentaseiesimo minuto, in seguito ad una assurda entrata con piede a martello di Kamil Glik sul malleolo di Giaccherini, ed inevitabile espulsione del difensore granata che lasciava la compagine a me cara in dieci contro una squadra che già di suo è solita giocare in dodici. Mia moglie ha  ritenuto  opportuno  puntualizzare  tale  aspetto  statistico  dopo che per la quindicesima volta avevo chiesto (con voce audibile anche fuori provincia) come era possibile essere così idioti e penicefali da fare un fallo del genere a centrocampo.
Domanda numero 4: Era veramente necessario guardarla tutta, ’sta partita?
La domanda mi è stata fatta a letto, dopo che avevo spento il televisore, talmente amareggiato per le tre pappine rimediate dal Toro che anche solo a pensarci non sono più nemmeno in grado di esprimermi in modo ricercato. Ed è la stessa domanda che, per anni, mi sono fatto in modo impietoso. Com’è possibile che ti piaccia il calcio? E com’è possibile che non ti piaccia in modo razionale, che tu non guardi al bel gioco, ma che tu abbia scelto di tifare per dei tizi in maglia rosso vino che non vincono uno scudetto dal ’76? E che qualsiasi evento sportivo tu veda in televisione, dal calcio al curling, attragga la tua attenzione in modo ipnotico? Ma a questa domanda, stranamente, so azzardare una risposta, anche se solo in via ipotetica.
Noi esseri umani ci siamo evoluti, nel tempo. E quelli di noi che si  sono  evoluti,  lo  hanno  fatto  perché  sono  sopravvissuti  all’ambiente che li circondava e sono quindi riusciti a riprodursi.  Ma l’ambiente era ostile, ed era difficile riuscire a sopravvivere da soli; per questo, molti di noi sono riusciti a sopravvivere solo unendosi in gruppi numerosi. E ogni volta che scoppiava una lite, o una contesa, tra due membri del gruppo, molti di noi osservavano la disputa dall’esterno, per cercare di capire chi dei due fosse il più forte. E, quindi, a chi dei due unirsi in caso di divisione. È ragionevole pensare che chi guardava attentamente il combattimento (e che in seguito si univa al più forte, al più intelligente, al più combattivo) sia sopravvissuto più facilmente di chi non si interessava alla cosa. In altri termini, quelli tra noi che avevano l’istinto di fermarsi a guardare una competizione per stabilire chi fosse il più forte hanno avuto, a mio avviso, un vantaggio evolutivo, e non di poco conto.  Poi, la società è cambiata, e i nostri usi con essa. Ma, così come nel coccige portiamo ancora il mozzicone di una coda che da tempo abbiamo smesso di esibire, allo stesso modo è possibile che nello strato più animalesco del nostro cervello sia rimasto l’istinto di fermarsi ogni volta che vediamo una competizione tra membri della nostra stessa specie, con l’inconsapevole fine di valutare chi tra di loro sia il più forte e potersi unire alla schiera dei loro sostenitori.
A patto che, ovviamente, non sia la Juve.
Va bene l’evoluzione, ma c’è un limite a tutto.