Claudio Giovanardi, Tutto così regolare tutto così prevedibile

01-06-2016

Un'evasione esplosiva, Gualberto Alvino

 

Professore di Linguistica italiana all’università di Roma, recentemente approdato alla narrativa col “romanzo” Mamma ricordi (Lecce, Manni, 2013), che un critico giunse a definire «poème en prose, o monologo salmodiante alla Jahier, in cui l’essenzialità lirica fa aggio sulle altrettanto tenui che svianti istanze diegetiche», Claudio Giovanardi si ripresenta al pubblico dei lettori, per i tipi dello stesso editore, con una raccolta di ventisette racconti tra brevi e brevissimi dal titolo minimale e metricamente scandito (una coppia d’ottonarî dattilici), ergo ben giovanardiano, Tutto così regolare tutto così prevedibile (Lecce, Manni, 2015). Narrazioni — s’avverte opportunamente in quarta di copertina — tra «ironia, memoria, fantasia e visionarietà» condotte con «un occhio disincantato, a volte sorridente, a volte meditativo»: quasi pagine di diario destinate a circolazione privata (il Nostro rifiuta, più per “competenza in umiltà” che per pudore, la toga dell’artifex, limitandosi a scrivere di sé e della propria vita attorno a un privilegiato mannello d’ossessioni: l’impossibilità di conoscersi e di conoscere, l’orrore della fine avvertita come incombente, la pietas per un’umanità disorientata e dolente). Pagine una diversa dall’altra (si va dal realismo all’iperrealismo all’umorismo al fiabesco al pirandellismo al surreale, mescidati talora nello stesso individuo testuale, quasiché l’autore cercasse la propria strada senza volerla veramente trovare), caratterizzate da un sottovoce affabile, da una lingua razionale e colloquiale, capace di far significare oggetti infinitesimi senza abbandoni lirici, benché si tratti pur sempre d’un mondo di sostanze dotate di profondità simboliche a tratti vertiginose, di cui è spia la cura riservata all’organizzazione formale (Giovanardi non tende, come le torme d’ingenui che popolano l’odierna narrativa, a una mitica letteratura “di cose”, ma a una letteratura di parole che sappiano acquisire il medesimo spessore delle cose), e soprattutto — dato non trascurabile — il fatto che nella maggioranza dei casi gl’intrecci paiono scoccare, se non forziamo l’interpretazione, non già da istanze affabulatorie o da urgenze tematiche irrinunziabili, bensì da motivi tonali, schiettamente musicali.
Una lingua, si badi, non priva di succhi espressivistici e tentativi d’evasione dalla prigione linguistica tradizionale (il che, per un linguista di vaglia in servizio permanente effettivo, assume connotati di portata non infima): si pensi ai forti arcaismi e cultismi incastrati a forza in contesti incompatibili, con esiti poco meno che traumatici («cosa ci faccio costà?», «[corpi] graveolenti», «[ferraglie] infeudate l’una dentro l’altra», «nel luogo ove si svolgeva la riunione»); all’impiego pleonastico di pronomi e avverbî («come gli pare a lui», «non ci giurerei che abbia seguito il consiglio»); ai dialettismi lessicali e ai regionalismi sintattici («le lamiere che si infrociano nelle lamiere», «si era convinta di accogliere il loro invito»).
Una evasione che ci auguriamo altrettanto imminente che esplosiva.