Claudio Morandini, Rapsodia su un solo tema

29-06-2010
L'intervista, di Massimo Maugeri

Cosa (o chi) ti ha ispirato (o spinto) a scrivere “Rapsodia su un solo tema”?
Il riferimento iniziale sta nei “Colloqui con Stravinsky”, che possiedo nell’edizione Einaudi del 1977: un testo su cui ho fantasticato a lungo, e che mi è sempre sembrato il modello per eccellenza dell’intervista culturale. Robert Craft riesce, senza darlo a vedere, a tirar fuori dal vecchio maestro russo ricordi sorprendenti, divagazioni teoriche, affetti, tenerezze, ammissioni e una discreta dose di malignità, e Stravinsky sta al gioco. Un’arte, quella dell’intervista culturale, che en passant ritrovo oggi nei libri di Paolo Di Paolo e di Sergio Sozi (o in questo blog, caro Massimo!), che hanno un alto potere rievocativo.
Ma prima ancora ci sono stati altri piccoli fatti: la scoperta della “Sinfonia di Salmi” di Stravinsky tra i dischi di mio padre; la visione, divenuta con gli anni un’ossessione, di “Fantasia” di Disney; la collana della Fratelli Fabbri di lp dedicati alla Musica Moderna (colta!); “C’è musica e musica” di Berio in prima serata in RAI; il terzo canale radio, che ho imposto tirannicamente per anni a tutta la famiglia; l’approccio, ahimè tardivo e svogliato, allo studio del pianoforte; le lezioni sulla musica (storia, filologia, filosofia) all’Università di Torino, con Fubini, Pestelli, Tammaro; la tesi su “Stravinsky trascrittore e revisore di se stesso”; il collezionismo musicale, vissuto in certe fasi in modo compulsivo e ossessivo; un tentativo di accostarmi al jazz suonato; la riscoperta del piacere di suonare con amici che benevolmente sorvolavano sulle mie magagne tecniche (Naif, il duo di funk sperimentale con Momò Riva “The Commandmentz”). Tutto questo ha alimentato il libro, in un certo senso ha premuto perché trovassi le parole per raccontarlo.
Ho citato più volte Stravinsky (con diverse traslitterazioni, oltretutto), ma il mio Dvoinikov non gli assomiglia quasi per niente. il primo era un compositore di successo incline al cosmopolitismo, il secondo è uno scorbutico e isolato musicista che ha vissuto sulla propria pelle le contraddizioni drammatiche della storia dell’Unione Sovietica.
La musica è insomma una parte importante della mia vita, alimenta pensieri, accompagna azioni, impone concentrazione, ispira (l’ho detto!), commuove anche (le forme contrappuntistiche mi commuovono. Reazione di abbandono smarrito e fiducioso dinanzi alle grandezze dell’ingegno umano, quando ci si mette. Il caro vecchio senso del sublime, temo). E ho voluto provare a condividere un po’ di tutto questo, scrivendo “Rapsodia”. Poi ho sentito il bisogno di allontanare un po’ lo sguardo, parlando sì di musica, ma attraverso personaggi che non fossero me e storie che non fossero la mia, se non in qualche dettaglio.

Come è nata l’idea?
Il tema che scorre lungo tutto il romanzo (i condizionamenti della musica da parte di diverse forme di potere) si è formato un po’ alla volta. All’inizio non era certo una tesi, era una sorta di intuizione di Prescott: le musiche di Broadway e quelle di un’opera del realismo socialista suonano intercambiabili. Da premesse diverse, si arriva a risultati compatibili: “un desiderio di piacere e di professarsi ottimista, un sentimentalismo aperto e plateale, un dinamismo tutto saltelli e piroette e passo di marcia”. Sto citando Ethan Prescott, che più avanti scrive con una certa enfasi: “Mette i brividi pensarlo – fa sentire di colpo meno liberi sapere che il mondo del libero mercato vuole da noi, sia pure attraverso metodi assai meno inquisitori delle censure e delle purghe sovietiche, i medesimi risultati: ottimismo, sentimento, afflato eroico, marcette e valzer. È ciò che Dvoinikov, con un’allegra perfidia, mi ha suggerito”.
Ora, questa non è una tesi – non amo i romanzi a tesi, e a dire il vero non saprei sostenere una tesi così – ma certo è il collante che mi ha permesso di mettere insieme gli spunti fornitimi dalle fonti che ho citato prima in una storia che è anche la storia di una presa di coscienza (di Prescott).
A questo punto, mettere a confronto due personaggi molto diversi all’inizio (il giovane brillante americano, il vecchio scontroso affaticato russo) e via via più vicini, e fingere che ciò avvenga in una sorta di saggio in progress, mi è sembrata la forma più adatta.
 
Questo tuo romanzo è piuttosto corposo… quanto tempo hai impiegato a scriverlo?
Ho cominciato a raccogliere pagine attorno al 2005, ai tempi degli ultimi ritocchi su “Le larve”: e qualcosa di quell’altro romanzo deve essere rimasto in “Rapsodia” – sto pensando alle pagine in cui Dvoinikov rievoca la sua infanzia nel grande palazzo signorile in campagna e l’adolescenza da inquieto dongiovanni a Mosca…
Poi ho preso gusto a immaginare le pagine di analisi di composizioni immaginarie (di Dvoinikov e di Prescott): lo so, altri illustri autori, immensi anzi, lo hanno già fatto (li abbiamo ricordati a più riprese in questo forum), ma ho cercato di non lasciarmi intimidire da loro, e di conservare il piacere di comporre musiche con le parole.
Poi ho lasciato che i personaggi prendessero corpo, e si muovessero, e si incontrassero. Sono cose che richiedono tempo e spazio.
Poi è toccato al pamphlet settecentesco, in cui si immagina un viaggio del tempo in un Novecento musicale folle ma anche profetico: puro divertimento (a cui è seguito un paziente lavoro di asciugatura, viste le prime reazioni degli amici che si sono prestati alla lettura).
Infine, è arrivata l’esasperante fase della sistemazione, della combinazione, dell’amalgama, della ricerca del tono giusto, del controllo, del ricontrollo. Alla fine del 2008 il libro poteva dirsi concluso, nelle linee generali.

Che tipo di riscontri hai avuto (fino a questo momento) dai lettori?
Rassicuranti. I musicisti di impostazione classica mi hanno confermato di aver trovato nelle pagine di “Rapsodia” molto della loro vita e dei loro pensieri, e non hanno storto il naso di fronte alle pagine di maggiore impronta musicale. Chi ama il rock o il pop o la techno si è divertito a leggere le pagine in cui Prescott esprime tutto il suo disappunto e rimugina su come salvarsi da un lavoro che gli è stato commissionato e che dovrebbe contaminare stilemi colti con ritmi da discoteca… E anche chi ama e pratica il jazz mi ha confidato che sì, è proprio così, il jazz soffre oggi delle stesse magagne che Ethan Prescott individua nella musica del suo compagno Carl Thalberg – l’approvazione del cultore di jazz mi interessa molto, proprio perché il jazz nel mio romanzo sembra fare una figura un po’ barbina…
Ma anche chi non sa nulla di musica (la musica! Classica! Del Novecento!) è riuscito a superare le pagine più ardue e a interessarsi alla storia dei personaggi – con qualche fatica, magari, ma spero ripagato con un sovrappiù di emozioni e di gratificazioni.