Cristina Alziati, A compimento

22-12-2005

Aprite quella porta, di Enzo Siciliano


Bel libro incisivo e antilirico è A compimento di Cristina Alziati. Scrive Luca Lenzini nella prefazione: «Dopo le carneficine del “secolo breve” sembrò che un nuovo inizio potesse aprire una porta diversa, che la lezione fosse stata compresa».
Invece non è stato così (forse non è mai stato così). Di guerra in guerra, di menzogna in menzogna, ogni giorno la storia è riscritta dai vincitori: i morti sono insultati e ai vinti è tolta la parola. Ma proprio per questo, nessuna resa o diserzione. La “piccola porta” di cui scrisse Brecht («Lassù dalle parti del Mare Glaciale Artico / vedo ancora una piccola porta»), la porta della speranza e della libertà reintegrata torna come immagine incentivante nei versi aspri della Alziati, dettati sulla linea dell’antinovecentismo teorizzato fra gli anni ’50 e ’60 da una rivista come “Officina”, animata dai nomi di Pasolini, Fortini, Roversi. Non è facile ripescare l’accento della poesia civile in un mondo come il nostro, sempre percorso dai media schiacciasassi. Ma Alziati lo scova nello spazio che si schiude fra immediato sentire e alcune ferme certezze della mente. «Ti diranno che è odio e non è / odio, è conflitto. E la lotta / della vita espropriata per una / vita riappropriata / è amore». La Palestina, le stragi italiane e gli enigmi che le hanno travestite: la parola della Alziati ha una classica fermezza, una classica scanzione. Incisa su pietra, la poesia è la forma più alta di resistenza, e ci viene incontro dove la memoria individuale e il comune vivere quotidiano si confrontano e si sommano.