Giuseppe Porqueddu, Il vero è sogno

09-05-2013

Tra sogno e sogno, di Virginio Bono

Il linguaggio poetico – per sua natura selezionato, sintetico – perché riveli tutte le potenzialità espressive ha bisogno o di una lettura mentale, privata e attenta, o di una voce educata – sensibile ai toni, alle pause – che sappia coinvolgere, commuovere, rapire.
E parla anche in un tempo confuso e “vuoto di valore” come il nostro, diseducato e sopraffatto da una realtà impoetica, grave di paure. Anche a “vaghe larve, ginestre residuali”, quali oggi noi siamo.
Assistiamo, in Biblioteca, alla presentazione de Il vero è sogno di Giuseppe Porqueddu.
Il linguaggio della poesia – “la breve luce, l’attimo sublime”può esprimere, ancora e sempre, la sofferenza dell’uomo, le sue inquietudini insoddisfatte, dolcezza e sgomento d’amore, bisogno di pacifica solidale convivenza.
Sono sentimenti, questi, sicuramente presenti nelle attese del pubblico che gremisce il Salone degli incontri non futili. Prestigiose presenze universitarie – Clelia Martignoni, Angelo Stella… – forniscono indicazioni di strutture e macrotesto, analisi formale alla scoperta di influenze, citazioni, laboratorio, metapoesia, cadenze metriche, paronomasie di segno-sogno, etc. etc. Dell’autore è la partecipe voce recitante.
Ma io immagino – estraneo a luogo e persone – “una voce di flauto” (recitazione è “musica e matematica”) che faccia sentire ancor più la bellezza delle parole, l’armonia “non subito dissolta” dei versi volutamente poveri di rime, là dove essa appare, a frammenti, “gusci di parole erranti”.
Come quando l’attore Marco Rual venne a leggere poesie per i nostri ragazzi della scuola; e fu grande emozione. Dopo un approccio informale di breve introduzione ai testi, “musica di versi” a far vibrare il silenzio.
Immagino una voce che circolarmente tocchi punti di un percorso programmato nelle pagine: iniziando dal proposito di “canto”, con passaggi sul Prologo, dove la poesia è augurio di ritrovare “la passione e la fede in sé, nelle altrui pene”, auspicio per un “ritorno di storia e di speranza”, magari in “un’altra età” dove il non vissuto “diventa vita”. Poesia del nostro tempo, sviamento / perenne, lago a noi sempre negato…
Successiva è la resa del sogno “con l’eco del passato” – Non solo mito (intendo ora) l’estate / ma tentato ritorno circolare / al principio di sé, alla nicchia d’ombra / travestita di luce… – che anticipa per alcuni tratti motivi di critica sociale sviluppati negli Intermezzi (cari ai linguisti e da loro proposti per via della mescidanza e dell’ironia).
Poi “nel pensier mi fingo” temi del Racconto, dove l’accento appare più personale: Quanti racconti, ed è una sola vita / dicono, ma molteplice di volti, / di storie che s’intrecciano e svaniscono…; o di Evanescenza dove l’immagine è “vestita solo del profumo di nuvola fiorita”: Se nuovamente intorno è primavera / come dicono tutti / e solo in parte / m’intrica ancora quest’ebbrezza, un gioco / dei sensi e della mente, tuttavia / io vedo te come davvero mai / ti ho veduta, / o altre cento mille volte… Immagine che si fa lieve, si veste di penombra, s’increspa , sfuma in un “riposato sussurro dentro domestico incanto”.
E chiudo, ormai in assorta lettura, il libellum pumice expolitum che tengo in mano,con Padre e madre, preghiera laica di amore “che congiunge i diversi della terra”: Aiutaci ad attingere con gioia un benessere sobrio e condiviso / e a veder nell’errore e torto altrui / il nostro, immerso nel limite umano / che ci eguaglia, se tu t’incarni in noi / abbattendo l’orgoglio, unico male.