Giuseppina De Rienzo, Vico del fico al Purgatorio

30-07-2008
Soluzione finale: non voltarsi indietro, di Giuseppe Amoroso
 
Sempre in penombra, anche se fuori brilla il sole, il vicolo in leggera salita è un corridoio di panni stesi, percorso da un traffico caotico. Qui, in un vecchio palazzo malandato, ha il suo laboratorio di ricamatore Saverio Derosa detto Eva, un anziano omosessuale dalla voce cantilenante. È lo zio di Maria la quale, oppressa dalle sopraffazioni del marito, pericoloso e instabile, si è infine ribellata uccidendolo. Difensore d’ufficio della donna è nominata l’avvocatessa Giulia Leone, l’io narrante, che è a sua volta un essere malinconico e tormentato dalla morte della madre, dura e implacabile e dalla fine della relazione con Nino, un egocentrico dalla “vita irrisolta”.
Puntando la macchina da presa su sfondi di una Napoli più ampia, Giuseppina De Rienzo tocca il solare quartiere di Chiaia e la zona dei Vergini, una delle più antiche della città; individua volti dal “piglio di chi ha fatta sua l’arroganza e la usa come normale mezzo di difesa”; coglie in gesti e voci come “un refrain di vendette, teatrale, esagerato”; fa sbalzare scorci di case antiche e fatiscenti, con qualcosa rimasto di sontuoso e altero; ritorna a osservare il ribollente andirivieni di strade maleodoranti, di luoghi devastati dalla violenza.
Vico del Fico al Purgatorio (Manni, pp. 197, euro 17) è un romanzo che coniuga la coralità più appariscente con l’attenta analisi psicologica dei singoli personaggi, mettendo in mostra una disperazione cupa, un oscuro sentimento di deriva, attaccato alle parole e agli ambienti ed espresso da una realtà rumorosa e degradata, un po’ stravolta e un po’ immobile in una fissità di perdizione che aggiunge quel di più di irrimediabile condanna. Il diverso taglio degli episodi con modulazione prolungata del parlato, il passaggio fulmineo di momenti illustrativi, il soprassalto di un pensiero, il ritratto tutto spigoli e scabrose rivelazioni di qualche figura riescono a disegnare i connotati dello smarrimento, della fine di ogni speranza che entra in “un buco nero senza uscita”.
L’autrice muove da un dialogo per edificare articolati sviluppi di azioni che, coagulandosi attorno ad alcuni nuclei, delineano le direttrici del romanzo. L’oralità, intensamente drammatizzata e in qualche occasione resa dolce da accordi musicali, genera pertanto l’intreccio secondo piani strutturali portati a isolare l’asprezza di qualche spunto e a recuperare narrativamente motivi, informazioni, semplici accenni, sfumature della ”lingua colorita e appassionata” del dialetto. Le fasi del processo penale a carico di Maria, così rigurgitanti di particolari crudi da cui viene fuori una storia “violenta, fragile, anche un po’ pacchiana”, si alternano con i ricordi della narratrice che ritrova i suoi inutili sogni e intanto compie altre esplorazioni in una funerea, sotterranea Napoli, venendo a contatto con luoghi dove “il valico tra la vita e la morte è un semplice spazio d’aria”.
Intanto, la logica stringente del dibattimento in aula, lungi dall’essere una gabbia per il romanzesco, si trasforma in un’esca per catturare i comportamenti più indifesi e naturali degli uomini. Indimenticabile resta il sorriso ”malioso e insieme innocente” che sembra liberarsi dallo stravagante e malinconico “pagliaccetto” di Saverio Derosa ormai allenato a opporre un ”muro di gomma” al tentativo degli altri di comprenderlo.
Razionale e commosso, questo di Giuseppina De Rienzoè un duro racconto della fragilità e della resa in cui chi è vittima appare per un istante come l’“elemento stonato” di un paesaggio che offre “un approdo solo da immaginare”.
Ma è anche, nel suo positivo e sorprendente finale, la coraggiosa risoluzione di chi non vuole “voltarsi indietro”, scegliendo una nuova strada.