Lidia De Federicis, Del raccontare

01-06-2005

Itinerario nel presente, di Maria Vittoria Vittori


L’elemento che per primo si coglie nella raccolta di saggi di Lidia De Federicis Del raccontare è il timbro della voce: conversevole, ma con un forte accento etico.
Questa voce di donna che ha largamente fruito della letteratura, incrociandola con le sue esperienze di lavoro, di politica e di vita, non si dimentica mai del retroterra autobiografico – in nome di una presunzione di maggiore autorevolezza, ciò che talvolta accade ai critici – né, d’altro canto, mostra di indulgere all’autobiografismo spinto, vezzo frequente in qualche “giovin critico” che ambirebbe a canonizzare le proprie esperienze. Mi sembra che ben altro sia l’obiettivo: interrogare i punti nevralgici del discorso narrativo, quelli in cui la letteratura, attraversando la vita meglio si rivela nel suo insopprimibile impulso conoscitivo e morale. A tal scopo le dimensioni biografiche e quotidiane, con la loro frammentaria ma insostituibile costellazione di significati, si rivelano decisive: ed ecco allora che l’articolazione critica di questi scritti – pubblicati in "Belfagor" e "L’Indice", e qui liberamente riscritti e raccolti con l’eloquente titolo Saggi affettivi – prende le mosse da una lunga esperienza di vita nella scuola. Da quel momento eminentemente maschile di quando De Federicis vi è entrata – anni Cinquanta – fino alla scuola di oggi, largamente femminilizzata ma paradossalmente ancora portatrice di un pensiero non fertilizzato dal pensiero delle donne. Più di ogni altro territorio o istituzione, la scuola – con il fitto paesaggio rappresentativo che le è sorto intorno e su cui si esercita una lettura critica affabile e pungente – fa toccare con mano le illusioni, le contraddizioni e i paradossi di una civiltà. Nella ribadita convinzione che «la narrativa continua ad essere un luogo sperimentale delle strutture conoscitive» si snodano le tappe successive dell’itinerario nella contemporaneità. Che si soffermano l’una sul rapporto tra modelli letterari e modelli di comportamento in una materia di antichissima lava che non ha smesso mai di bruciare quale “l’attrattiva delle cose ultime”: malattia, decadenza, morte (e qui troviamo liberamente unite, in virtù di piccoli decisivi dettagli, la forza extratestuale di ricordi autobiografici e preziose riflessioni sui testi, in particolare Tra noi due di Elisabetta Rasy e Finte di Paolo Teobaldi); l’altra sulla “forma del tempo” ovvero sui romanzi che tematizzano l’oggi o il passato da prospettive impreviste. Nei dieci appunti su scrittrici eccentriche, scrittrici che dalle loro oblique posizioni meglio colgono nel segno, spiccano i nomi di Luisa Adorno, Grazia Cherchi, Fabrizia Ramondino.
Appare evidente che al di là di ogni criterio di compattezza, valgono per Lidia De Federicis la fenditura improvvisa, il margine d’incompiuto, la capacità di non risolversi completamente in questi. Reticenza e rimozione, civilissime virtù, risultano vitali per salvaguardare il senso, per non rischiare di perderlo in una temporaneità che può essere esibizionistica e livellatrice. E a questo riguardo segnalo una bella espressione che De Federicis adopera nei confronti di Luisa Adorno e che si addice – almeno così mi sembra – anche al peculiare timbro della sua voce critico-narrativa: «La rimozione è la sua forza, coerente con un preciso clima di moralità e di gusto».