Nicola Vacca, Ti ho dato tutte le stagioni

01-03-2008

Il dolore in versi

Non è che il dolore sia risolto dall’arte,quantunque l’arte si nutra del dolore.
Ma l’arte si nutre anche della gioia, quindi se la vita avesse gioia continua l’arte non cesserebbe. Ciò sia detto per coloro che ritengono che se, poniamo, un uomo ha sofferto ma scrive poesie, o altro, sulla sofferenza, la sofferenza è dissolta o risolta. Per niente. La sofferenza rimane, nella vita, poi c’è l’arte, quando riesce, che ha scopi distinti, e riesce e risolve, quando riesce e risolve, i suoi scopi, di essere arte. Nicola Vacca, saggista, scrittore, conosce questa dualità, e se fa poesia sul dolore, come nel recente: Ti ho dato tutte le stagioni”, Manni Editore, con la Prefazione di Antonio Debenedetti, non cade nell’estetismo che risolve la vita nell’arte per cui una poesia, per dire, vale una malattia o la morte, e scritta la poesia la vita è risolta. Vacca sente l’impotenza dell’arte nei confronti della vita, e un capolavoro niente spartisce con la tragedia della morte o della malattia di chi amiamo. Sì che è terribile far poesia sul dolore, poiché siamo coscienti che se anche giungiamo all’arte la vita poi non viene intaccata, e il male resta male. Ma, certo, è possibile esprimere l’amore, e nella vita e nell’arte e con l’arte. Niente di più ci è dato oltre l’amore per chi soffre, e che, se lo amiamo, entra in noi e ci fa penare le sue pene, e gli diamo “tutte le stagioni”, il nostro tempo, la cura, l’ansia millimetrica, e il respiro, il pallore di chi amiamo, li percepiamo quanto l’uragano che può travolgerci. Di questa empatia millimetrica, Vacca si fa interprete, anzi: protagonista, e il saper malata, il sentir malata, la donna che ama, sua coniuge, il vederla dolente, il “conviverla” ferita, lo esulcera, e versi brevi, sentenziosi di acritudine sull’umana condizione, con un Dio, il quale, come in altre raccolte, Vacca coglie quale incombenza assente, per così dire, e silenziosa, gli sorgono, e tenta ogni via per dichiarare l’amore, per confortare, perché la donna amata non sia sconfitta… E che fare se non proferire parole d’amore, e vivere l’amore anche scrivendolo! “Non sapevo che mi avrebbero / salvato le parole, quando / ho iniziato a scrivere / del cancro, del suo veleno/che ti stava bevendo la vita. / Non sapevo di poterlo / guardare negli occhi, / mentre il suo pugnale / si preparava a colpire. / E sfidarlo non avendo paura / di chiamarlo con il suo nome”. La necessaria saggezza per sopportare il dolore suscita in Vacca, dicevo, versi sentenziosi: “Qualche volta la vita è calice / di medicina amare. In questi anni / di corsie e di ospedali, cerchiamo / una risposta al male che stordisce. / Si muore poco per volta, / impariamo a vivere”. E per finire, la poesia estrema: senza estetismi, senza “fede”, cruda e tutta umana: “Siamo caduti quando / il male ha mangiato / la tua normalità. Quel giorno ho respirato / il vuoto che c’è nelle parole, / in tutto ciò che accade / il senso di un mistero. / Non hai torto quando / dici che il dolore è / l’errore fatale di Dio”.