Nicola Vacca, Ti ho dato tutte le stagioni

26-11-2007

Freschi di stampa, di Gianfranco Fabbri

La coppia d’amore, si sa, vive la propria unità in un solo, unico corpo – quello che scaturisce dalla media affettiva dei due singoli corpi-. Viene spontaneo esordire in tal modo, avendo sottomano il nuovo libro di Nicola Vacca, il cui titolo è : “Ti ho dato tutte le stagioni”. In esso, infatti, si celebra la condivisione amorosa (“l’essere tra l’amorosa quiete delle tue braccia” di borgesiana memoria), che rende gemelli siamesi i due protagonisti del sentimento integrale. La raccolta di poesie di cui si parla qui è la storia di una tragedia dei tempi moderni: un cancro che si insinua nel corpo di uno dei due componenti la Casa Comune e sconquassa, con il suo dolore macabro, l’equilibrio del microclima affettivo del sito d’amore. La voce narrante (quella del coniuge indenne) afferma sin dagli inizi che c’è soltanto da attraversare questo deserto senza vegetazione; c’è solo da rendersi oggetto della violenza impazzita, per potere così risalire la china della dignità umana. Inizia allora un monologo che subito si fa dialogo con l’altra metà silenziosa. Si vive il dramma dell’uomo che indugia, dell’uomo che studia la strategia da attivare. E’ il compagno di lei, il “dolce-onnivoro” dai sentimenti precari, l’individuo che pesa la segnatura del male, che apprezza la sopportazione dell’amata nell’affrontare il gorgo della lama fendente. Nascono quindi versi come questi: “Quando il dolore ha picchiato / alla nostra porta non potevamo / non farlo entrare. Il male non ha chiesto / permesso e comincia a insinuarsi …”. Si assiste impotenti ed inquieti al tripudio del dolore nell’incavo dell’”oggetto” amato; si getta lo sguardo sull’esterno di chi narra –sull’altro da sé-. Siamo dinanzi ad un processo inumano: quello della distruzione dell’Io. Si giunge infine al battesimo del dolore ( al sacramento del riconoscersi – del riconoscere il seme oscuro e trofico del male) e si procede verso l’azione salvifica delle parole. “Si sta senza tregua : / capiamo che esistere / è lasciare che tutto accada”. La caratteristica del libro è soprattutto indicata nella scelta di far seguire ad una pagina narrante un’altra colma di sentenze. Ci si chiede allora che cosa possa sottrarre il male. Toglie la materia mancante? (Siamo noi stessi, questa materia mancante?). Giunto a tal punto, Vacca afferma: “Siamo la voce delle spade / che strappano i nostri corpi. / … / Sapremo essere insieme / quello che il dolore ci toglie.” . Le parole indicibili scaricano così la loro responsabilità sull’occhio, il quale guarda l’oggetto come se fosse evento raccontato. (“Le parole mancano e bisogna dirle, / le pronunciamo nelle cose”). Quest’opera di Nicola Vacca fa vivere la coppia in un solo involucro -un qualcosa che a stento riesce ancora a parlare, spacciandosi per una seconda persona plurale-. La poesia si rende pregevole e nel contempo lineare. Non servono atteggiamenti e farse: è troppo alta la posta in gioco. Si va così al nocciolo della questione, anche perché non è lontano il momento in cui, al netto di un’alba sostanziosa, la gemellarità finisce per mostrarsi in un unico punto di vista, il cui profilo pare sia fusione di intenti e di comune sentire.