Orazio Caruso giunge alla sua opera prima con notevoli strumenti di conoscenza della letteratura e della filosofia, che però ci vengono offerti con leggerezza, una scrittura resa quasi come in un resoconto patinato di una lettura da rivista, lasciando sullo sfondo, ma ben presenti, le grandi tematiche esistenziali che (speriamo!) ci ostiniamo ad affrontare, almeno una volta al giorno, come in una preghiera laica. La capacità di cesellare luoghi e personaggi sostiene il romanzo, abbindolando il lettore in una delle classiche letture "tutte di un fiato" per giungere ad un elegante nonfinale, che mette a posto tutto, lasciando tutto come è, forse con un nuovo senso.
Il libro trasuda amore per la Grecia, presentata con l'occhio attento di antico viaggiatore (da grantour); per la gioventù senza rimpianti, per l'umanità in genere guardata con uno sguardo comunque benevolo e mai moraleggiante, denotando una maturità complessiva che si evince anche nella semplicità della descrizione degli eventi inerenti il sesso, uno dei pochi totem ancor oggi rimasti. Una lieve poetica avvolge l'intero romanzo, mimetizzata nella nostalgia per le vite, più o meno vissute o soltanto sognate, dai tanti vivissimi personaggi.
Ad un tratto, tra le pagine del libro è come se uno squarcio facesse apparire l'orrore del presente, di vite che sono ritenute tali solo se rappresentate m qualche orribile "reality": il colpo di scena spiazza artatamente il lettore, per portarlo in un atmosfera da trhiller, un incubo dove ognuno di noi potrebbe diventare un fenomeno da baraccone, nel paese dei balocchi, visitato senza l'ausilio del grillo parlante, liberi da ogni coscienza. Una vena dolceamara percorre l'intera storia, alla fine del romanzo essa fuoriesce come sorgente a cui abbeverarsi, di letteratura.