Zara Finzi, Per gentile concessione

01-10-2013

L’almanacco della poesia italiana, di Manuel Cohen

«Gli uomini che / arrivavano in bicicletta dalla città / gridavano è finita, è finita!/ Le donne uscivano dalle porte coi grembiuli e in ciabatte. L’altoparlante del teatro trasmetteva / ridere delle follie del mondo. / C’era nell’aria un senso di completa redenzione». Sono i versi iniziali dalla ambientazione epico-corale, di questo libro che deve la propria vita al caparbio, autoanalitico esercizio di ricordo che l’autrice ha elaborato lungo tutto l’arco della sua esistenza. Mantovana di nascita, bolognese di adozione, Zara Finzi è stata allieva di Anceschi, ha all’attivo cinque raccolte poetiche e varie plaquettes, e suoi versi appaiono sulle migliori riviste cartacee di poesia. Attingendo al privato dell’esperienza, a quel fondamentale bagaglio essenziale di motivi (e traumi) che è stato la sua infanzia, Zara Finzi affronta una delle pagine più crudeli del nostro Novecento: la Seconda Guerra Mondiale. Con gli occhi di una bimba ebrea che vede precipitare il tempo, e vede mutare la percezione stessa degli affetti e delle persone care, ha riempito «il cassetto di sogni inevasi», in un libro denso e intenso della memoria del padre, e della ricerca del padre. In questi anni recenti, sono svariati gli autori che hanno affrontato quel conflitto e la Shoà, elaborando autentiche narrazioni poematiche: Roberto Piperno (Esseri, 2010), Salvatore Pagliuca (Pret’ Ianch’,‘Pietre Bianche’, 2010), Daniele Santoro (Sulla strada per Leobschütz, 2012), Giacomo Vit (Ziklon b, 2011); con molta probabilità si tratta di una questione da indagare, anche oltre la resa letteraria, con più lenti critiche, memorialistica e storiografia, etnografia e religione, e, non ultima, attraverso il filtro dell’antropologia culturale: come mai in una stagione di particolare spaesamento ed inquietudine a vario grado, a varia latitudine, ci si ostina a fissare una pagina (ancora ferocemente personale) che ha a che fare con la grande Storia? O che affronta la storia da svariati punti di vista (privati, domestici, di tribù d’appartenenza)? Ad aprire Per gentile concessione è un exergo tratto da un verso di Derek Walcott: «Non sappiamo mai cosa farà la memoria», ed ha ladoppia valenza dell’atto di umiltà e della consapevolezza della labilità e mutevolezza (a volte, di vera e propria minaccia negazionista e revisionista) della medesima. Il libro si dispiega in una fluida narrazione per lacerti o flashbacks, inserti di parlato e incisi di canzoni d’epoca, o di ‘parole d’ordine’ del regime; e la narratio fa ricorso al tempo precipuo del ricordo: l’imperfetto, spesso con valore di presente storico, come in versi essenziali e calibrati, eleganti nella loro apparente semplicità, la Finzi ci restituisce la percezione, quasi l’allure, tra profumi ed echi di voci (e la appercezione estetica) di quel tempo, l’apparente andatura svagata, persino ironica, propria dell’infanzia, che si imbatte, con decoro e pudore, nella più intima tragedia familiare, razziale, e civile: «I sette bambini Perdomini sembravano / la réclame della razza ariana. / Erano tutti biondi, chiari di / carnagione, gli occhi azzurri. / Lei si rotolava con loro giù / per l’argine dell’Oglio. Finivano in un prato, / la bocca contro i ‘galiséi’, un’erba / acidula che succhiavano / per ingannare la sete». Ma tutti i realia, e i documenti d’epoca, raccontati sempre in terza persona, quasi a frapporre uno schermo ulteriore alla violenza e al dolore, altro non sono che simulacri e simboli infine di quel grande vulnus costituito dalla perdita del padre: «Si aprivano due rughe/ nella morte degli zigomi, come/ due pennellate più profonde/ nello steso di una tela./La migrazione non è invasione/ è volo d’uccelli disse una volta/ prima di andarsene».