Acasadidio
Acasadidio
Sullo sfondo una Milano non più da bere, con il suo carico di umanità sconosciuta e con gli intrecci tra le stanze della politica e una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza nel campo dell’assistenza.
In primo piano due madri, una albanese e una italiana; una figlia che viene uccisa e un figlio che nasce.
INCIPIT
Alle otto e trenta apre, alle nove arrivano i volontari. A quell’ora arriva anche Ombretta. Quando sa che Martina non c’è, arriva dopo. Martina non chiede mai quando Ombretta è arrivata, Ombretta produce una gran quantità di assunzioni, per questo nessuno la controlla. In genere è Dario che raccoglie le offerte di lavoro, Ombretta le esamina e decide chi mandare: in questo è brava e per lo più l’azzecca.
Le più fortunate sono le prime della giornata, Ombretta è ancora calma e dedica anche un’ora a un colloquio; poi guarda l’orologio, mette a fuoco e di punto in bianco accelera. Dopo le dieci e mezza s’incazza con tutti – la sua soglia di sopportazione è minima. Anche lei ha il mito del lavoro, urla per far vedere che lavora.
«Guarda che deficiente! Che pretende quella?»
È l’ora in cui potrebbe arrivare Martina e, appena a portata d’orecchio, rendersi conto che Ombretta è stanca e incazzata perché ha già tanto lavorato. Teresa chiude la porta per non sentire.
Martina arriva per ultima, quando non è in giro per tribunali e questure. Nel frattempo Teresa ha intrattenuto le persone a cui Martina ha dato appuntamento. Quando Martina arriva, Teresa glielo dice:
«Sai che sono arrivate alle nove? Se prevedi di arrivare tardi, perché dai appuntamento così presto?»
Martina se la prende con Teresa.
«Cosa t’importa? Gli appuntamenti sono miei.»
Martina cura i casi più pietosi. Arrivando fa una panoramica. Se una persona ha l’aspetto stanco perché fa anticamera dall’alba, ne è contrariata e la rimanda al giorno dopo. Se una le sorride e le fa festa, fosse pure arrivata quell’istante, le dà la precedenza.
Oppure sta seduta al suo tavolo e fa i conteggi di inizio e fine rapporto. Assorta, chiusa, barchette di sudore sotto le ascelle. A volte non ce la fa. Dice agli interessati di venire a ritirare i conteggi martedì, ma o non riesce o si dimentica. In extremis si rivolge a Ilio, che provvede: prende gli appunti di Martina, scritti peggio che un rebus, e su quelli lavora. Ha molto chiaro quando – e cosa – dire o non dire, sa come fare l’impaginazione e i calcoli. Martina lo coccola.
«Dopo la laurea, puoi fermarti un po’ a fare esperienza» gli dice. «Ti si può dare qualche compenso.»
Allora si vede Ilio – se possibile – ancora più professionale, perché le persone sono così: come le tratti, diventano.
Poi chiama un datore di lavoro.
«Questa ha bisogno del permesso di soggiorno» dice Martina «quindi diamole venticinque ore» – che è il minimo.
Però non insiste perché abbia di più. Anzi dice:
«Più avanti chiedetele qualche ora in più, è disponibile.»
A volte gratis, a volte pagando lo straordinario, ma non i contributi.
E se chiama la polizia, per sapere se un tizio è davvero passato dal Centro, chi risponde? Martina. Se telefona un giornale, per un’intervista o un’inchiesta, chi risponde? Ancora Martina.
«Cosa vuoi parlare con questo giornale?» commenta poi. «Vogliono qualcosa da scrivere per guadagnare la pagnotta.»
Fa lo stesso con la posta: se non ha l’imprinting giusto, la cestina. Inutile che Teresa le dica che quello sarebbe il suo lavoro.
«Non pensarci» dice Martina. «Faccio io.»
Perde tempo per appuntamenti non previsti, telefonate arretrate, attività senza costrutto, per poter dire, se il Presidente chiama dopo il suo orario di servizio, che è rimasta in ufficio perché c’è tanto da fare. Si gonfia d’orgoglio, quando si sente dire:
«Non sono riuscito a parlarti. Ti ho cercata, ma il tuo telefono era sempre occupato.»
Quando ha qualche minuto libero o è stanca, si concede una pausa e gira per il corridoio, a origliare le conversazioni al telefono. Malgrado la mole, scivola agile e silenziosa. Per lei sono tutti poco affidabili. Se viene vista, mette dentro la testa.
«Ti posso parlare?» dice.
«Certo, metto giù, tanto non risponde nessuno» fa l’altra.
«Mette giù per non essere ascoltata» commenta Martina, quando l’altra non può sentire.
Martina ha reazioni umane solo quando il diabete la costringe. Allora, grande e grossa com’è, comincia a tremare, diventa scarlatta e la prende la frenesia. Quando ha carenze di zuccheri ingurgita qualsiasi cosa: snack, merendine, caramelle. Ne va in cerca di stanza in stanza. Così è per le necessità fisiche: accede ai servizi solo se è sull’orlo dell’incontinenza.
Alle quattordici e trenta: il bar. Se guarda la piazza, uno dice: dove son capitato? Se gira l’angolo, si trova in una strada made in Milan, con bar e tutto. Quando c’è il bar, c’è tutto, pensa Teresa. Una città senza bar lei non la concepisce.
«Abbiamo lavorato abbastanza?» dice Martina.
È il segnale dello sfollamento, significa che gli zuccheri sono in calo e urge rifornimento. Ufficialmente il bar è “per parlare un po’”. Teresa non sa cosa dire.
«Cosa prendiamo? Cosa prendiamo?» domanda Martina.
Ha l’acquolina in bocca. Mangia con gli occhi: torte farcite, confezioni di gelati, patatine. Siccome si sente in colpa, stuzzica le altre.
«Io non posso, prendi tu.»
Di fronte all’insensibilità collettiva, capitola:
«Facciamo a metà?»
Una volta non c’erano più dolci, erano arrivate tardi. Pulivano. Le sedie sui tavoli a gambe all’aria. Un puzzo di ammoniaca e detersivi che avrebbe fatto vomitare chiunque. Ma non Martina. S’è mangiate due brioche alla crema di due giorni prima. Ombretta idem – con la scusa delle economie per sposarsi.
«Visto che paga il Centro, tanto vale consumare» fa.
«Dovrei trovarmi in punto di morte per mangiare quella roba» le dice Teresa.
Intanto Martina si giustifica col barista:
«Sa, lavoriamo tanto, non ce la facciamo ad arrivare in tempo.»
Il barista dice l’unica cosa ragionevole:
«Se vuole, possiamo portare su.»
E Martina:
«No, non possiamo permettercelo, siamo un’associazione di volontariato.»