Achille e la tartaruga
Quarantotto argomenti (dalle graduatorie ad esaurimento, alle nomine in ruolo, agli esami di Stato, alla laurea specialistica, ai debiti e ai crediti formativi, alle supplenze, agli istituti privati… e molti altri) introducono il lettore nel tanto discusso pianeta scuola e mettono a disposizione chiavi d’accesso e soluzioni che può offrire con sicurezza solo chi nel mondo dell’istruzione agisce a tempo pieno come l’autore.
Dirige la rivista “Scuola e Amministrazione” e collabora a testate giornalistiche locali e nazionali.
Nel mondo della scuola ricopre incarichi ministeriali relativi alla sua alta qualificazione.
Prefazione
I teorici dell’attivismo pedagogico di fine Ottocento, ai quali si deve il modello tratto dal secondo paradosso “Contro il movimento” di Zenone di Elea, intendevano mettere in evidenza, per denunciarlo, il cronico ritardo che la scuola, raffigurata dall’epico Achille, lamenta nei confronti della società, anche se questa dovesse avanzare con la serena cadenza riflessiva della tartaruga.
Confermano quest’idea, della presunta inadeguatezza metodologica della scuola di oggi rispetto ai ritmi di evoluzione della società produttiva, gli attuali epigoni dell’attivismo pedagogico di fine Ottocento, i quali sembra siano tuttora convinti che sia corretta l’ispirazione pedagogica dei loro padri spirituali. A loro giudizio, non si può rinunciare all’ideale d’una scuola che non sia più impostata sul nozionismo e sull’ascolto passivo degli insegnanti da parte degli alunni, sul solo studio individuale e sugli interessi culturali e professionali dei docenti. Per costoro è necessario un modello di scuola che faccia affidamento soprattutto sugli interessi dei discenti, il che è come dire, ci si deve affidare ad una scuola che abbia a cuore la psicologia dell’alunno, più che quella del maestro.
Concordano con questa visione della scuola di Stato come il cardinale Bellarmino concordava con Galilei sulle tesi eliocentriche, le persone le quali pensano che neppure oggi ci si possa sottrarre al fascino intellettuale del sapere disciplinarizzato, che si dovrebbe somministrare dall’insegnante al discente, con lo stesso stile orfico con il quale Pitagora svelava ai discepoli i misteri della conoscenza. In ogni studente si occulterebbe sempre un virtuale doktor Faust, al quale Thomas Mann fa sacrificare anche la sua anima immortale, pur d’eccellere nel sapere, indipendentemente dall’utilizzabilità del sapere stesso.
E mentre a Roma, nelle ancora solenni stanze del Ministero della Minerva, in Trastevere, i pedagogisti bergamaschi e milanesi, incuranti al destino di Sagunto, si alternano nel decidere quali debbano essere i nomi degli istituti secondari superiori della scuola nazionale, incerti se conservar loro, morattianamente, il titolo di Liceo, o restituire quelli di istituto tecnico o professionale; e mentre, ancora, gli inflessibili emissari contabili del Ministro dell’Economia controllano se i dirigenti dell’avvocatessa Maria Grazia Gelmini stiano rispettando i limiti di spesa assegnati alle 10.800 scuole autonome, nelle aule continua l’eterno dialogo fra insegnanti ed alunni.
Seduta intorno ai suoi bambini dai tre ai cinque anni, l’insegnante ripete, instancabile come la brezza primaverile, la canzoncina Farfallina bella e bianca / sempre vola e mai si stanca, nel medesimo tempo in cui, nell’aula del primo piano del vecchio edificio di carparo ocra, la maestrina dell’ambito logico-matematico spiega ai suoi ragazzini che il numero decimale 0,45 non rappresenta una quantità maggiore di quella espressa dal numero 0,55.
Nella vicina Scuola Media, che è sempre più difficile memorizzare con il nuovo nome di Secondaria di primo grado, gli insegnanti dell’armoniosa lingua di Honoré de Balzac impegnano i loro resistenti talenti a convincere le famiglie che non di solo inglese vivrà l’uomo del vicino futuro.
Contemporaneamente, le sale dei professori dei Licei risuonano delle domande con le quali gli insegnanti di latino e greco si chiedono se, fra gli orizzonti dei pedagogisti cesarei di Trastevere potrà tornare a rivivere l’interesse per la cultura classica; e negli istituti Tecnici e Professionali si odono, ormai distinti, gli echi delle ansie finanziarie, generate dalla rapidità dei processi di obsolescenza tecnologica, che trasformano i laboratori in musei di archeologia scolastica.
Sulle presidenze degli istituti professionali continua, intanto, ad aleggiare l’ombra del Titolo V della Costituzione, che rimette alle Regioni l’intera programmazione delle attività formative dei loro corsi di studio.
La tastiera d’un computer d’una delle stanze d’un vecchio ex provveditorato agli studi, ha registrato ansie e speranze sulla Scuola, espresse da dirigenti, insegnanti, segretari, studenti e genitori negli ultimi due anni, preoccupati dalla persistenza del ritmo delle riforme scolastiche, che non accenna ancora a mostrare segni apprezzabili di stanchezza.
Per fortuna degli alunni, gli insegnanti non son come l’asin bigio del Carducci di Davanti a San Guido, che “tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo”. Fra i talenti della classe docente, oltre alla virtù della pazienza, c’è quella della speranza.
La prima virtù è stata necessaria agli insegnanti per adeguare le loro metodologie didattiche alle ricorrenti e mutevoli definizioni degli obiettivi educativo-didattici della scuola, che da dieci anni provengono dalle rive del Tevere.
La seconda virtù consente agli insegnanti di sperare che là, dove si decidono le forme della scuola nazionale, si vorrà tener conto di quel che fece Solone, il gran legislatore ateniese del VI secolo a.C. L’Autore del Discorso sul buon governo acconsentì, sì, a dare ai suoi concittadini una legislazione che ne avrebbe garantita la civile convivenza fra le possenti mura della più bella città dell’Attica, ma a condizione che essi si fossero impegnati, con giuramento davanti all’altare di Giove, a non chiedere che quelle leggi non venissero cambiate neppure in uno iota, per almeno dieci anni.
Solone, dal suo canto, si impegnò a rinunciare all’acqua ed al fuoco ateniesi per lo stesso numero di anni, esiliandosi sulle coste orientali dell’Egeo, in Asia Minore. Sapeva, infatti, che in democrazia, il legislatore può resistere alle richieste del popolo soltanto se andrà in esilio.