Fin dal 1980 ha pubblicato poesie (l’ultimo, con Manni Editori, del 2006, Aporia). Del 1999 è il suo primo romanzo Edoné… edoné. È presente in antologie e riviste italiane. Per i suoi scritti ha avuto significativi riconoscimenti critici.
INCIPIT
Il cielo mandava, a tratti, una pioviggine leggera che rimaneva a lungo sospesa in un alito di vento, quasi inavvertita. L’orizzonte era mutevole. Un grigio plumbeo pesava come una massa ostinata sul giardino, nubi più lievi s’andavano spostando e a intervalli un raggio malato passava tra gli squarci di cielo e irrorava di grazia ogni umida pregnanza, i muschi, i ramoscelli smagriti, i colori accesi delle viti, il lento marcire delle foglie sul terreno.
I trifogli, straboccanti dalle aiuole, dondolavano gocce sulla pelle fine delle loro fogliette a cuore, facendo fatica a reggerne il peso sull’esile gambo.
La terra era bruna, odorosa; le foglie andavano ingiallendo. Un leggero vento le faceva rabbrividire e qualcuna ne staccava dal ramo. Le moribonde, allontanate a forza, parevano ancora tendere con spasimo alla pianta, invocarla a mezz’aria con braccia invisibili, lottare infine, vanamente, con quella forza indomita che andava poi sprofondandole nel torpore oblioso della terra.
L’umidità e i muschi dimoravano in ampie ombre sui mattoni in cotto del giardino; la vite canadese, prosperosa, allungava ancora sul terreno, con una caparbietà inarrestabile, la folta chioma che si faceva fulva. Ma tutto quel rosso acceso pareva un ultimo bagliore della vita sul punto di finire, una fiammella che mandi l’ultimo guizzo, un lampo pronto a lasciare il cielo in una notte più fonda. Infatti, a prenderla in mano, quella fulva criniera lasciava cadere ad una ad una le sue foglie, ormai segnate da un destino di morte.
In una larga pozza s’abbeverava un beccaccino solitario, ben piumato di bianco e di grigio, con una macchia rossa, intensa e purissima sul becco. Perfettamente a suo agio, non si curò dell’arrivo di Marida che si mise a osservarlo in un angolo, a discreta distanza, trattenendo il respiro. Lo osservò mentre continuava a guazzare tranquillo nella pozza, e quella era forse per lui un piccolo lago.
Per un solo istante sentì la sua essenza trasferirsi nel piccolo regno di quell’essere minuscolo, mite eppure gioioso, quasi che la vita ancestrale fosse quella stessa pacatezza che all’uomo, per miracolo, fosse dato ancora di recuperare, non avendola forse smarrita del tutto.
Ma fu la sensazione di un istante.
Tutto fu ancora l’essenza del suo tempo. Il passato le parve ricompreso nell’aspetto triste di quel giardino; tutta l’esperienza non era che l’incessante travaglio dell’esistenza che si concede alla morte. Quel lento imputridire era la vita che procedeva inesorabile, divorando se stessa. Tutta l’essenza dell’aria, delle cose molteplici e infinite, quell’imponderabile miscuglio che odorava distruzione, rovina, lenta putredine, era la stessa vita – la sua stessa vita – così come Marida la percepiva.
La ruggine scrostava gli smalti: nelle umide crepe dei muri, tra mattone e mattone dell’impiantito, s’insediavano cornici di muschi e piccole erbe dalle forti radici. Una vegetazione di licheni colorava di giallo il cotto antico che copriva i muretti di sostegno nella parte terrazzata del giardino. I rampicanti si facevano esili, intristivano, le foglie residue si versavano in cascatelle malate per attingere ad umori del terreno che non erano più vitali.
Nota critica di Agata Gueli
Si racconta che Einstein ad un ricevimento abbia risposto così ad una madre ansiosa, che gli aveva chiesto cosa dovesse fare perché il figlio diventasse un grande: “gli racconti delle storie.” Di certo un fondamento possiede questa risposta dall’apparenza sibillina ed il senso di essa è da riferirsi al fatto che le storie degli altri, le storie raccontate, le storie scritte, aprono nella vita di ognuno di noi mondi nuovi, quelli degli altri, che ci diventano vicini, amici, nemici. Ma ragioniamo con calma.
Possiamo cominciare con l’immagine del nonno che racconta le sue storie al nipotino, il quale ascolta immergendosi in luoghi lontani, tra persone sconosciute: in lui la meraviglia nello scoprire che realtà altre sono esistite, lo spinge a reiterare la domanda di racconto al nonno. Possiamo ancora andare avanti con le immagini e le attese che una storia scritta scatena, un universo di storie diverse, quanti sono i personaggi, di azioni, situazioni, emozioni, nelle quali lasciarsi deragliare per ritrovarsi, quando si chiude l’ultima pagina del racconto, della novella, del romanzo che si è letto.
Così accade anche quando incontriamo Marida, protagonista dell’ultimo romanzo “Adolescenza infinita”, di Rossella Cerniglia, una storia bella, di quelle che ti riposano, quando questo significa potere fino in fondo delocalizzarsi dalla propria realtà per approdare in un’altra vita, nello specifico quella in cui Marida diventa la tua amica della quale passo passo segui la storia, cercando quasi di cooperare al suo sviluppo, se fosse possibile. Questo ti capita leggendo “Adolescenza infinita” e questo ne costituisce già di per sé il suo alto valore estetico.Ne vedremo più avanti la ragione.
Infatti il sistema testo - lettore propone una circolarità virtuosa tra l’autore del testo e il suo lettore, tale per cui entrambi diventano soggetti autori di un percorso complesso segnato dalla possibilità, esistente, prodotta o meno dal testo stesso, che alla fine si realizzi l’incontro tra i due. Se questo accade, si compie la “fusione di orizzonti”, di cui parla H.G. Gadamer (Verità e metodo, Bompiani 1983), fusione che si manifesta nell’incontro, appunto, tra il testo, definito questo dalla sua storicità, e il lettore, che, da parte sua, è definito invece dalla sua diversa situazione cognitiva, esistenziale e storica.
L’incontro come fusione, pertanto, consente la migliore delle ermeneutiche possibili, a mio avviso, quale la Cerniglia rende realizzabile nel suo narrare l’esistere tormentato di Marida; lo fa con cura, direi con affetto, dilatando il tempo della narrazione rispetto al tempo della storia, perché così esige che si faccia l’anima, quando diviene protagonista. Ecco allora le descrizioni minuziose dei luoghi, degli oggetti della natura e di quelli artificiali; dei gesti e delle azioni, tecnica che consente al lettore attento e coinvolto di formulare le ipotesi possibili, (rese possibili cioè dalla narrazione stessa), su ciò che avverrà dopo. Si costituisce in tal modo l’”orizzonte di attesa” (Jauss, Scuola di Costanza), dentro il quale il lettore interroga di continuo le parole scritte, le frasi, i periodi, che sostanziano il viaggio nel mondo della protagonista, sviluppando le sue emozioni, le attese per ciò che seguirà, che accadrà a Marida. E il lettore è sempre lì a concretizzare l’azione della lettura, colmando in tal modo i non detti del testo, i vuoti, formulando le sue ipotesi sullo sviluppo successivo della storia, secondo la propria intentio.
Quest’ultima nasconde il pericolo di produrre un lettore tematico, cioè quello che legge il testo per trovarvi ciò che lui stesso vuole (secondo la propria esistenza), per cui occorre fare i conti con l’intentio auctoris e l’intentio operis, come ci insegna U. Eco; e qui ci vengono in aiuto alcune pagine del romanzo, che confondono un po’ le carte della storia, allorché assolvono una funzione metaletteraria e di meta interpretazione non da poco.
“Si è sempre consapevoli, quando si tenta la disamina e l’interpretazione, del rischio di mettere noi stessi al posto dell’altro, poiché niente ci libera da questo filtro che è la nostra individualità e la nostra coscienza”(dal testo pag 95);
e ancora:
”non pensi che tocchi all’artista, per quanto gli è consentito, di chiarire se stesso? Chi può dire di conoscere davvero l’altro?(……..) quando si esprimono valutazioni occorre fare in modo di parlare con cognizione. Ma com’è possibile se le parole, come gli individui, come i pensieri e tutto il resto…. Com’è possibile se ogni cosa, ogni concetto, contiene in sé infinite variazioni, infinite sfumature di significato?”
Ne esce fuori questo: Achille non raggiungerà mai la tartaruga: ma è davvero così? Veramente la fusione di orizzonti è impossibile? è sicuro che l’autore e la sua opera, due intentiones, siano monadi inesplorabili? Io ritengo di no nella misura in cui il lettore esiste. Una mia alunna mi faceva argutamente notare che “il lector in fabula” non è sempre presente a chi scrive, come quando si scrive un diario e lo si scrive solo per se stessi. L’osservazione poteva spiazzarmi, ma mi ha soccorso l’idea che quelle macchie d’inchiostro che sono le parole costituiscono già da sé un per sé che è diverso dall’in sé che scrive. Voglio dire proprio con U. Eco che la pagina scritta, la storia raccontata, come una pagina di diario, esprime qualcosa che può essere al di là dell’intenzione dell’autore, che, dunque, tornando a leggere ciò che ha scritto, ne diviene, appunto, il lettore. Come si vede il sistema si complica con l’intentio operis, come luogo oggettivante l’intentio autoris, che dunque diviene un oggetto diverso, un alter.
E allora credo che le considerazioni della Cerniglia, certamente utili alla costruzione dell’esistenza solipsistica del suo personaggio, se comunque analizzate sul piano dell’ermeneutica possibile, si smentiscano da sole, dal momento che non è pensabile che non si realizzi l’incontro tra testo e lettore, dal momento che il primo lettore è l’autore/autrice stesso/a, quando nell’atto creativo ha “trovato la sua forma, (….) se stessa” (pag. 48).
Il testo infatti è possibile considerarlo come un atto linguistico, che, come tale, ha sempre una funzione perlocutoria, cioè produce effetti e conseguenze; in questo caso la conseguenza è per l’autore il trovare se stesso fuori da sé, nel racconto che ha scritto: è quello che accade all’autrice.
Ma chiediamoci in modo più esteso, esteso cioè al lettore: quali sono gli effetti e le conseguenze prodotte da “Adolescenza infinita”? Qui entra in gioco l’altra riflessione che fa l’autrice, cioè che l’individualità di chi disamina e valuta agisca come una corazza della quale non si può liberare e che lo porta a mettersi al posto dell’altro, cioè del testo, uccidendolo, dunque, nella sua autonoma esistenza, e facendolo diventare da alter, alter ego.
La questione non è da poco e ci fa anche divenire chiaro a questo punto come l’utilizzo di questo romanzo in classe sia utile quale strumento per aprire confronti, dibattiti tra i nostri allievi, anche sulla reale o meno possibilità di comunicare con i testi, di incontrarli dialogando con loro; o se piuttosto occorra rinunciare, optando per il clinamen della interpretazione impossibile, tesi peraltro sostenuta dalla neo-ermeneutica, che sottolinea la distanza storica dai testi, che per questo resterebbero incomprensibili, in quanto ogni interpretazione è distorsione.
Occorre riprendere allora il concetto di lettore tematico, del lettore cioè che nel testo legge ciò che vuole leggervi, trovarvi, in rapporto alle sue aspettative contingenti. E’ un pericolo che la Cerniglia intravvede e rispetto al quale reagisce e richiama l’attenzione del lettore, perché rifletta e non trascuri una cosa importantissima, senza la quale non vi è e non può esservi lettura di testi letterari: il patto narrativo.
Se questo si accende sin dalle prime pagine, come accade leggendo “Adolescenza infinita”, io credo che ne scaturirà da subito nel lettore un’intenzione ben precisa, quella cioè, della quale già accennavo prima, di entrare nel testo come in un bosco del quale esplorare tutti i sentieri con mente vergine, rispettandone i luoghi e gli oggetti animati.
In caso contrario vi entrerà solo per trovare al più presto la via d’uscita, possibilmente quella più consona al proprio sé. Allora lo scrittore, forse, avrà sbagliato qualcosa.
Di certo, Rossella Cerniglia non ha sbagliato nulla.
Nota critica di Antonino De Rosalia
Romanzi definisce Rossella Cerniglia.le sue due opere di narrativa finora al suo attivo (Edoné...Edoné, Palermo 1999, e questo Adolescenza Infinita, Lecce, del 2007 appena concluso) e tali in verità meritano di essere considerati. Però, a lettura conclusa, il lettore che compie anche ufficio di critico, spinto dai tanti aspetti della materia di questo secondo libro, legittimamente si chiede: "Romanzo sì, ma di che tipo ?" Il genere, infatti, nella sua vita secolare, per la sua notevole diffusione nelle letteraure di tante parti del mondo e nel corso della sua evoluzione, ha assunto una tipologia molto ampia e varia.. Abbiamo infatti, come è ben noto, romanzi storici, naturalistici, di fantascienza, d'avventura, d'amore, autobiografici, persino quelli di... colore: i 'gialli' , i 'rosa', ed anche un «romanzo teologico» quale è, secondo B. Croce, la Divina Commedia; ed altri ancora. Eppure a questa evoluzione si aggiumge ora, o quanto meno si fa più specifica e corposa, un'altra fase: il romanzo che qui presentiamo. Vediamo perché.
Il nucleo centrale, direi generativo, dell'opera, è il complesso delle situazioni esistenziali vissute nel giro di alcuni anni, dalla prima adolesenza
fin quasi alla maturità, e poi continuate nei ricordi e nei loro effetti, da una figura femminile esile nel fisico ma ben salda nei fondamenti del suo carattere, improntato a grande sensibilità.
Il suo nome è Marida. Sulla sua formazione umana hanno inciso l'assenza dela madre, morta anzi tempo, il carattere «tutt'altro che amabile» (p.11), di Sandra, la donna amata dal padre che ha preso il posto della madre nella casa, il padre stesso, debole e chiuso, per il quale essa «provava un'avversione smisurata (p. 18).
Priva com'è di possibilità di comunicare con qualcuno in casa sul piano affettivo, Marida comincia sin dalla prima adolescenza a chiudersi in sé, a sentirsi estranea al mondo, a percepirne la vita come uguale alla sua là dove le sue forme esprimono distruzione, rovina, putredine. Viene in mente la Saffo leopardiana, tolto, però, il «gaudio» che «ravviva» l'antica infelice nei momenti in cui essa vive questa corrispondenza tra la sua interiorità e il mondo esterno, tolto perché Marida non va oltre una fredda contemplazione di qiesta affinità di condizione.-. Ci sono anche momenti diversi, per sua buona sorte, ma sono piuttosto rari.
Comunque, l'istintivo bisogno di affetti non si spegne, e allora, se incontra qualcuno che per certe sue qualità la conquista, la sua amarezza si attenua e si accende in lei la speranza. Così è con un compagno di scuola che ha prestanza.fisica ed è un tipo allegro. Marida è lieta quando lui le rivolge la parola, e subito se lo immagina tale quale lo sogna il suo desiderio. Ma Camillo – questo è il nome che Marida gli ha dato non conoscendo quello vero -– non manifesta nessun interesse per lei, ed anzi arriva a confessare, senza alcun rispetto per lei, che, se le ha rivolto la parola, lo ha fatto soltamnto «per una stupida scommessa» (p .41). Amarissima, ovviamente, la delusione che a Marida tocca patire.
Altro incontro foriero di luci e di ombre per l'anima di Marida è quello col suo professore di filosofia al liceo. Tramite propiziatorio è la materia filosofica appunto, nei modi chiari, precisi, attraenti con cui la insegna quel giovane incaricato, per altro bello anche sotto l'aspetto fisico. Marida «rimase in balìa di una voluttuosa, pudica, fantastica adorazione» (p. 21) durante tutti e tre gli anni del liceo. Iscrittasi poi all''Università per laurearsi in filosofia, lo incontra casualmente in Facoltà. Si riprende il dialogo filosofico e così si riaccende in lei, con identico impeto, l'amore degli anni liceali. Questa volta è amore corrisposto, perché Augusto è affascinato dalle grazie di lei, sicché i due vivono insieme appassionati incontri d'amore, addolciti dal piacere dei sensi.. Da parte sua Marida analizza quei momenti con limpidezza e ricercatezza di immagini e li idealizza «in purezza nobile e delicata» (p .69). Augusto invece non arriva a tanto per cui, preso da sazietà, si eclissa. Marida, unitamente a un grande dolore, «prova tutta la miseria di aver dato il suo amore invano» (p. 83). Subentra a quell'ingrato, allora, nell'attirare l'attenzione e l'interesse di Marida uno studente che svolge attività ideologca e politica presso i sindacati studenteschi.. Parla con facilità e in modo attraente. Si guadagna senza sforzo l'attenzione di tanti colleghi. Ma suscita anche l'opposizione di altri; e si accemdono allora violente polemiche in atmosfera sessantottesca. Intanto il fascino della parola agisce ancora una volta e Marida prende a gravitare attorno a lui «come una meteora rimasta intrappolata in un'orbita sconosciuta» (p. 78), tanto più che con Augusto c'è stata rottura. Le idee sono spesso in contrasto, anche se solo apparente, ma l'attrazione fisica reciproca è forte e finisce col prevalere, sì che i dissidi si compongono e i due non tardano a fare all'amore «voracemente» (p. 90).
Piero, questo il nome del giovane così focoso, è l'ultima esperienza amorosa, anzi erotica. Dopo di lui Merida si chiude in un'esistenza più rassegnata, chiusa entro i limiti della quotidianià e dell'abbandono quasi assoluto ai iricordi, cosa che la porta a vivere un'adolescenza senza fine: «L'adolescenza non finiva, non voleva lasciarla, ef era la sua condizione, la sua vita. Nel suo passato cercava un senso di essa. Andava esplorando le zxone d'ombra, le buie stanze silenziose che potevano animarsi di una corrente ininterrotta, un effluvio di essenze senza fine, e rimanere le stesse, identica cosa, eterne, pure in quella variabilità» (p. 59).
Libro complesso, dunque, ma di una complessità ben amalgamata, sostanziato di idee, riflessioni, considerazioni, definizioni articolate e ampiamente discuse e puntualizzate sul piano dei valori semantici, logici, dialettici, pertinenti in prevalenza al campo psicologico, ma anche a quello filosofico sia teorico che esistenziale, adeguando realtà e fantasia e avvalemdosi di questa facoltà per attuare similitudini e accostamenti, procedimenti teorici e definisioni, dialoghi e passaggi espositivi, commenti e approfondimenti diversi, ora emergenti di per sé nel dettato ora inseriti in esso con proprietà specifica. Un libro organco, al quale si adatta integralmente la risposta cha Alessandro Manzoni diede a chi gli chiese come avesse potuto comporre un romanzo di tanta mole. La risposta fu: "Pensandoci su"..
Anche Adolescenza infinita ha per sua base una cospicua dose di pensiaro, un pensiero nutrito da chiarissima tendenza a vivere interrogandosi sul proprio agire, su carattere e tendenze del proprio io, sul destino del singolo e dell'uomo in generale, un pensiero arricchitio da modernità di cultura e da notevole attitudine ad esprimere con garbo, chiarezza, organicità e misura il frutto di tutto questo meditare. Sono, queste quaslità, doti proprie della protagonista e dei suoi interlocutori, ma è del tutto ovvio che esse appartengono, in origine, a chi le ha trasferite in essi., vale a dire all'Autrice, che è persona ben nota per la sua competenza professionale in campo psicologico e filosofico, competenza dimostrata dalle pagine dell'opera in cui si trattano, con evidente ed opportuna impostazione didattica, argomenti di storia del pensiero e di analisi della psiche. E col risultato ultimo di attenuare la negazione del valore del pensiero implicitta nella spietata conclusione cui giungono, a conclusione dii un loro conversare, Augusto e Marida, sia pure con intenzioni diverse: «Il pensiero è la dannazione della vita !» (p. 76). Dico “spietata” perché alla capacità umana di pensare, non si può, a mio avviso, negare valore e il liibro, scritto, come dicevo, "pensandoci su", ne è una prova evidente.
E risulta anche autobiografico, ma non nel senso del generico valore autobiografico di ogni scrittura letteraria, bensì in quello di opera significativa di una personalità dotata di sensibilità ad alto livello, di spiccata tendenza ad analizzare la vita della sua anima, a connotare e qualificare l'entità e l'incidenza degli eventi di vita su di essi e, reciprocamente, di essi sulla vità. Alla sensibilità si unisceono l'intelligenza e la cultura e gli stati d'animo passano da transitori a duraturi, e acquistano, attraverso il pensare e l'esprimersi dei personaggi e lo svolgersi delle lro vicende, la consistenza di una problematicità molto varia.
Al centro di questa, la vita, con l'impossibilità, per l'uomo, di operare delle selte volontarie, perché la vita è, dice Rossella . Cerniglia,. «un tutto che si lega per fili reconditi in un tessuto dall'ordito ignoto; un intreccio che ci è dato soltanto di attraversare, non già di costruire, sebbene ci si illuda di possedere il filo come Teseo e di condurre il gioco. Invece, il filo si srotola per suo conto e conduce noi, poveri mortali, sulla traccia fatale e ignota» (p. 59).
I problemi riflettono gl' interrogativi che l'uomo si pone sin dall'età in cui il pensiero inizia la sua attività. .Le risposte a questi interrogativi sulle cause e le finalità dell'esistere di noi uomini e del mondo sono sempre insoddisfscenti, precarie, irreversibili. La Verità unica è un miraggio, un impossibilità assoluta; eppure, nonostante la sua vanità, il pensiero continua inesaustamente a cercarla, come per una condanna. «Se l'uomo aspira a ciò che non può essere posseduto, perché il pensiero può solo condurre a una visione scettica intorno a quest'ordine di cose, e non ci salva dalla dannazione della vita , ah , ecco la sua condanna ! E nessuno può sapere perché, e da chi, questa condanna.. Dio non si dà all'uomo, accenna a se stesso, e rimane lontano da questa condanna» (p. 74).. Qui la pagina è pervasa da un pessimismo sostanziale, che si concreta in espressioni che fanno insieme da premesse e da conclusioni tutte, o quasi tutte, sconfortanti.
Altro tema centrale di questa quasi ossessiva problematica, l'amore. Anche su questo argomento considerazioni amare, struggenti. Marida vorrebbe dargl iil valore di un'idealità pura, un tendere all'altro per affermare in sé l'immoertalità del tutto. E' sete d'immortalità dentro di sé. Ma deve poi constatare che «è l’incomprensione di due esseri che ostinatamente vogliono comprendersi» (p. 80). Semza riuscirvi, purtroppo.
Non può, tuttavia, non ammettere che tanto sconforto qualche pausa la conosce. E' quamdo Augusto le rivolge parole che Marida «sprofondava dentro con risonanze infinite che la facevano vibrare» (p. 84). Allora, «la sua anima tinniva come un cristallo» (ibidem);. oppure, quando «i sensi si appagano, ottengono, dopo un lungp desiderio, sazietà, e allora il loro adito ci apre le porte di quel che non siamo» (p. 70).
Oppure ancora, in quel pomeriggio di inconsueta serenità che essa vive nell'aristocratica magnifica casa dell'anziano professore Zarbo. «Qui l'occhio corre al cielo che piove sugli oggetti di questo luogo fantastico e si apre al candore della meraviglia. E Marida non sa dire il suo cuore: è tutta la magia del sogno, e l'attimo ha chiuso in sé l'eterno» (p. 96). Allora ci chiediamo noi e giriamo la domanda all’Autrice qui presente, non diventa possibile, anche se raramente, chiudere iin sé l' eterno e vivere sia pure come in sogno sentimenti vicini alla gioia se non proprio alla felicità ?
Comunque si torna presto a quella condizione di assoluta impossibilità di certezze durature che ci condanna al pessimismo. L'amarezza di tali conclusioni si rinnova e si estende al considerare tante altre afflizioni umane. Il dolore, per esempio, e i problemi del sociale e quelli del vivere quotidiano. Sui quali i lsttori si sentiranno largamente indotti a convenire con Rossella Cerniglia.
Ora coniene soffermarsi un po’ di più sugli aspetti letterari del libro. Sono aspetti, lo dico subito, che gli assicurano altri meriti.
Per due motivi soprattutto. Uno è la classicità dello stile, improntato a chiarezza, proprietà, sobria eleganza, piena adeguatezza alla varietà delle situaziomi narrative o descrittive, spesso figurative, attraverso l'analogia o il contrasto, con elementi del mondo esterno nonché piena attitudine a dare particolare risalto, là dove la si scruta e si presenta, all'interiorità dei personaggi, quella di Merida in particolare; quasi sempre pensosa e malinconica fino alla tristezza, e là dove si descrive la terribile tempesta che sconvolge il campeggio sulla spiaggia di Tropea.
L'altro motivo di merito è la serietà dell'impegno con cui si sostengono affermazioni rivelatrici di elaborazione di una personale visione dell disagio esistenziale dell'uomo. E’ materia, per sua natura, oggetto di pensiero, ma a Rossrlla tocca anche l’anima, la vive, insomma, questa materia, con sentimento, e il sentimento, si sa, genera poesia, come infatti Rossella ha già dimostrato con le sue sillogi. Ma Adolescenza infinita è un romanzo, e quindi prosa, e G. Debenedetti, nel suo volume fondamentale sul romanzo, richiamò opportunamente il “brioso anatema” di Stendhal comtro la prose poètique dei romanzi, un anatema che, precisa il Debenedetti, «è una difesa della discorsività, un grande precetto della vera arte del romanzo» (p.25), purché si badi «a superare quella scrittura che un romanziere come Proust deplorava, chiamandola passiva e documentaria» (p..26).
La scrittura a cui il Debenedetti si rifrisce è quella dei romanzieri non veri, «i semplici fastidiosi resocontisti, come Egli li definisce, di storie e cronache, gli sprovvidi registratori o referendari di pettegolezzi e di fatterelli».(ibid,).
Orbene, la prosa di Rossella Cerniglia. è lontana mille miglia da un simile tipo di scrittura. Lei sa bene trasformare la citazione del fatto o del documento di vita, pratica o interiore, in qualcosa di attivo e di creativo, mantenendo il ritmo, l’articolazione discorsiva anche in assenza di dialogo e facendo prendere posto naturaliter solo qua e là, quando cioè il sentimento urge e preme, note di accattivante liricità..
Che viene a dare altro merito all’opera, in quanto ne rende più piacevole la lettura.
A cui cordialmente Vi invito.
Una lettera di Ester Monachino
Rossella cara,
Non immaginavo che, nella lettura, avrei tanto sostato: spesso, tantissime volte. Lo imponeva la riflessione, l’impatto con le domande, qualche volta lo smarrimento per non sapere cosa rispondere tanto era immediato il momento del baratro per cui la parola si metteva fianco a fianco dell’interiorità mia e nostra, sospesa, in bilico, sul filo impalpabile intorno a cui non si sa più cosa è, cosa esiste.
Stupendamente liquida la scrittura; e il pensiero, l’intelletto non fanno da freno: la sosta non è fermarsi, non è punto fermo ma un momento per cui subentra la motivazione per cui continuare.
Bellissimi gli squarci che la descrizione del paesaggio, dei particolari, riescono ad offrire: l’immaginazione riesce a visionarli, a rendere netti i loro contorni, dunque a definirne la forma tanto da essere evidenti. E poi, l’anima…
…Tutto è anima, talvolta eterea ed imprendibile…talvolta prensile, quasi materia. Lei è nella dicotomia del Tutto, particella singola e corale, nella via verso l’Unico e Via essa stessa (pag. 43), ombra e luce (pag. 71), Parola e Silenzio (pag. 47), bellezza in sé, nelle proprie intrinseche sfaccettature (pag. 27)…
…Tutto è anima, nel crogiolo dilaniante dell’impossibilità di essere l’Altro (pag. 88), nella macerazione intima quando si tocca il tema dell’appartenenza (pag. 126), quando più non si sa dove finisce la realtà e comincia il sogno(pag. 111)…
Tutto è anima, anche nel “distacco”, che non è apatia ma visionare le cose e gli accadimenti al di là delle dicotomie, delle contraddizioni, delle dualità.
Questo, forse, è il sentire principe degli Dei? Chissà, forse.
Nota critica di Ida Rampolla del Tindaro
Ho l’abitudine, quando presento un libro, di partire dal titolo, che riassume in due o tre parole il significato di un’ispirazione.
In questo caso il titolo è di per sé emblematico: l’adolescenza, com’è noto, è solo un periodo della vita, quindi transitorio, caratterizzato da trasformazioni profonde nel corpo e nella psiche. Perché dunque, in questo romanzo, viene chiamata infinita? La spiegazione può venire da un’attenta lettura dell’opera, inquadrata nella produzione letteraria di Rossella Cerniglia, poetessa ma anche scrittrice molto sensibile ai temi psicologici, agli interrogativi sulla vita e sul destino dell’uomo, ai problemi esistenziali e spirituali.
Notiamo anzitutto che nei romanzi psicologici, fondati sull’introspezione e sulla ricerca di una realtà interiore, i protagonisti sono spesso e non a caso degli adolescenti. L’adolescenza è per eccellenza l’età delle inquietudini, dei dubbi delle crisi interiori. In questo romanzo però vi sono significati particolari che determinano anche una nuova e interessante tecnica narrativa.
La psicanalisi ha dato sempre una particolare importanza ai conflitti infantili e adolescenziali: in questo romanzo vi sono però parecchi elementi da sottolineare. Intorno al nucleo centrale dell’adolescenza è presente infatti una varietà di motivi, che, come è detto nella pagina in cui si parla delle sensazioni della protagonista di fronte alle spiegazioni del professore di filosofia, sono simili a quel dipanarsi di significati pieni a loro volta d’altri significati che poi “svaniscono come fantasmi, lasciando intendere dietro alla realtà una realtà più nascosta”. I temi, come in una partitura musicale, nascono, si sviluppano e scompaiono per dar posto ad altri, creando, grazie al potere della parola, atmosfere sempre diverse e risonanze infinite. Da una semplice sensazione sorgono, con un processo quasi proustiano, una serie di ricordi che si accavallano, si integrano, si sovrappongono.
L’adolescenza che fa pensare al fiorire e allo sbocciare della vita, è abitualmente legata alla primavera: l’inizio del romanzo, con una splendida descrizione paesaggistica, parla invece dell’autunno, con l’immagine della vite canadese dal rosso acceso che viene paragonata all’ultimo bagliore della vita sul punto di finire e a una fiammella che mandi l’ultimo guizzo. Tutto sembra quindi alludere a un destino di morte, di fine ineluttabile. L’autunno è una specie di motivo ricorrente: l’adolescente Marida vi scorge la bellezza malata delle cose e il loro disfacimento. Nel lento imputridire del giardino è visto il simbolo della vita che procede inesorabile, divorando se stessa; ma la fanciulla vi scorge soprattutto il simbolo della sua stessa vita, da lei considerata un fenomeno strano di cui non riesce a far parte.
Il romanzo, basato sulle percezioni di una ragazza che si sente estranea al mondo, appare la rappresentazione di un’adolescenza difficile, vista attraverso una lucida analisi di caratteri e sentimenti descritti con fine indagine psicologica e con grande sottigliezza analitica.
Psicologia e capacità descrittive si fondono sempre abilmente grazie a uno stile limpido, scorrevole e efficace.
Ritornano, nell’opera, la posizione dialettica tra la protagonista e il mondo che aveva già caratterizzato il romanzo precedente Edonè…edonè e ritorna il problema della conciliazione degli opposti e delle contrapposizioni, legate alla rottura dell’Unità originaria: un problema connesso agli interrogativi di carattere spirituale che caratterizzano il romanzo.
L’età dell’adolescenza è poi naturalmente collegata alle prime emozioni sentimentali, anche queste rappresentate con grande penetrazione. Il tumulto interiore, le crisi, le idealizzazioni tipiche dell’età, le reazioni nei confronti del mondo esterno, le inquietudini, le difficoltà relazionali, le irrequietezze e i dubbi diventano l’espressione di un profondo disagio e di un intimo tormento, studiati con profonda introspezione in tutti i loro risvolti.
Abbiamo così il quadro variegato di sentimenti adolescenziali visti con l’occhio di uno psicologo e con l’animo di un poeta. Con lo stesso sguardo acuto è esaminato il fascino esercitato sulla studentessa dal pensiero filosofico, che la spinge a riflettere sui problemi esistenziali, sull’essenza dell’essere e sull’essere dell’essenza e sulla forza della parola. Si alternano così, nella ragazza, le emozioni giovanili e quelle legate al mondo della cultura che le si schiude davanti e che le dimostra la forza e la potenza dell’uomo e il mistico richiamo che emana dall’Essere e all’Essere conduce.
Da tutto questo nasce l’aspirazione ad esprimersi poeticamente: e il passaggio all’atto creativo, che consente di tradurre in parole la musica interiore e il ritmo vitale, è descritto, come sempre, con straordinaria perspicacia.
Lo stile del romanzo alterna dunque spesso razionalità e lirismo, come ad esempio nella descrizione di oggetti che appaiono alla giovane Marida come un cimitero variegato di cose spente, un luogo delle essenze morte, fonte di oscuri richiami, una ragnatela tessuta su codici ignoti al resto del mondo.
Appare, certo, nel romanzo, anche la descrizione della vita quotidiana nella sua banale realtà e appare, espresso dal personaggio di Piero Patti, il richiamo ai problemi sociali. Lo sfondo è però essenzialmente psicologico e spirituale.
Le fantasticherie sugli oggetti del passato portano a una ricerca del tempo perduto che crea nel pensiero della protagonista una corrente ininterrotta, simbolo di un’adolescenza che non finisce e che acquista un senso solo nell’esame di quelle trame sottili che come dice in una sua poesia ”ti legano a ciò che non sai”. C’è dunque, soprattutto, uno studio uno studio dell’animo umano e la rappresentazione di un percorso spirituale che acquista un senso più profondo attraverso la rievocazione del passato.
C’è soprattutto la ricostruzione di un tempo interiore ben diverso da quello cronologico: un tempo che vive attraverso la psicologia del personaggio. Non si tratta, qui, di recuperare il passato, ma di trasferire cose e persone in una dimensione intima e soggettiva che porta anche a una deformazione fantastica dei luoghi e quindi a descrizioni liriche.
Il ricordo rappresenta una realtà perduta ma sempre carica di significati su cui riflettere. Ecco perché i dubbi e le ansie dell’adolescente si proiettano nel tempo ed ecco perché gli oggetti, attraverso la coscienza revocatrice, ricevono l’impronta particolare del narratore acquistando, nelle descrizioni una particolare densità emotiva. Lo stile ha infatti una grande potenza evocativa che sembra trasferire nelle cose e nella natura sentimenti e sensazioni.
Ecco perché anche l’adolescenza, perido limtato e circoscritto dell’esistenza umana, diventa infinita e certe equivalenze considerate ovvie 8adolescenza-primavera, autunno-declino) vengono sovvertite. Nel passato la protagonista cerca il senso di quel tessuto in cui tutto è legato da fili reconditi, con un intreccio, ella dice, possiamo attraversare, ma non costruire: cerca dunque la verità, la ricostruzione dell’idea primordiale, la comprensione del mistero per cui la vita contiene la morte, l’Eterno e l’Assoluto e incarna nelle labili forme anche le cose eterne e incorruttibili.
Anche le espressioni di un amore non più da adolescente per il professore di filosofia si arricchiscono di sfumature e di aspetti ricchi di connotazioni psicologiche e realistiche. A nche in questi sentimenti appaiono problemi esistenziali: Marida è portata a chiedersi il perché della vita e della morte e a provare sempre quel che sentiva sin da adolescente, il desiderio di eterno da trovare in ogni cosa, mentre deve sempre riscontrare la sconfitta e il declino. C’è dunque in lei un continuo scavo interiore, la ricerca di un significato dell’eterno scorrere delle cose, l’aspirazione intramontabile a ciò che è infinito e perfetto al “l’inarrivabile meta”, titolo di una precedente raccolta poetica di Rossella Cerniglia. Ed è da citare, a proposito, dei richiami filosofici sempre presenti nella sua opera, il titolo di un’altra raccolta, Aporia,dall’evidente allusione a quei problemi dalle difficoltà logiche insolubili, le cui possibilità di soluzione risultano annullate in partenza dalla contraddizione.
Tutti i tumultuosi interrogativi sulla realtà e sulla ricerca del trascendente, gia presenti nelle precedenti raccolte poetiche, trovano qui una più diffusa e completa espressione attraverso riflessioni, considerazioni, domande sulla vera essenza delle cose.
Il libro infatti è dominato dal desiderio di dare un senso alla propria sofferenza, anche se la fine di un amore, con la sua drammaticità di fondo, sembra sfociare nell’amarezza e nella disillusione.
Anche l’analisi di queste reazioni contiene un esame delle cause e degli aspetti del dolore e della sua ineluttabilità. Ma alle considerazioni negative si unisce l’amore per la vita, per le sue espressioni e per il suo meccanismo vitale in perpetuo movimento. Si passa così dalla narrazione limpida e vivace degli avvenimenti, allo studio dei caratteri, sempre abilmente delineati, con una rappresentazione della realtà soprattutto nella sua dimensione memoriale.. il ricordo è nel romanzo un tornare a se stessi, un frugare nella propria anima per studiarsi e per conoscersi meglio. Ma si tratta anche di una maniera poetica che affida spesso ai colori autunnali la sensazione del passato.
C’è, ad esempio, nella descrizione del giardino con i suoi sentori di disfacimento e di morte. Qualcosa che ricorda certe pagine del Gattopardo:ma l’atmosfera non è la stessa, perché qui l’anelito alla speranza e le problematiche spirituali danno un diverso significato alla narrazione e le sensazioni di malinconia sono espresse con grande musicalità e suggestione.
Quanto alle descrizioni, è indimenticabile anche l’ambiente in cui vive il professor Zarbo, un ambiente caratterizzato da fasto e decadenza e da tutte le sensazioni che emanano dalle cose consumate dal tempo.
Marida ritrova nelle narrazioni del vecchio professor Zarbo, piene di pathos e di vivacità, tutto il fascino del passato e dell’ignoto, la concretezza dell’umano e lo sgomento di fronte all’effimero.
C’è dunque sempre, in queste pagine, una ricchezza umana, espressa attraverso un’analisi che rivela la ricerca dell’Assoluto.
Nel romanzo si passa così dagli aspetti più comuni e quotidiani della vita cittadina –ad esempio il traffico- a quelle di una natura che ha sempre rispondenze con l’anima e coi sentimenti. Ma anche nel fiume di folla sui marciapiedi è visto il simbolo di un indistinto fluire, il fiume inconsapevole della vita che scorre instancabile. La memoria porta inoltre, come dice in un verso della raccolta poetica Fragmenta, “ a un destino intuito e lontano”. Questo tema della memoria ricorreva già in molte liriche precedenti, dove ispirava inquieti e dolorosi interrogativi. La riflessione sul mondo e sul destino dell’uomo, sul tempo e sull’eternità, sull’infinito e sullo spazio, è espressa in questo romanzo attraverso le sensazioni di chi, ormai adulto, attraverso la riflessione sul passato, continua l’indagine alla luce di una perenne ricerca, per vedere in ogni essere la scintilla divina che porta l’uomo a sentire l’esigenza del tutto per tornare all’unità primordiale.
Così, attraverso caratteri resi sempre con una profondità psicologica che non trascura alcun tratto della personalità umana, il ragionamento e la logica si fondono col sentimento e l’emozione per approdare spesso a una vera poesia in prosa che esprime l’eterno anelito dell’uomo alla Verità.
Nota di Annamaria Pioppo
“La base di ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine per natura. Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questi è tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l’opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso.” Così si esprime A. Schopenhauer in Il mondo come volontà e rappresentazione e su questo inesorabile destino conferito all’uomo quale “animale metafisico” si esplica tutta la sofferta ricerca di senso con cui la protagonista del romanzo, Marida, intesse l’intera sua esistenza. La trama del racconto esprime con vivacità di immagini e coinvolgenti significati linguistici la progressiva acquisizione della consapevolezza da parte di Marida che “il pensiero è la dannazione della vita”; a causa della sua essenza razionale, infatti, l’uomo è costantemente a ricercare la verità dell’Essere, a spiegarne le cause e le ragioni, a comporre in unità ciò che appare frammentato, disarticolato e, quindi, superfluo. La forza della necessità si abbatte sull’uomo consegnandolo al suo destino di infaticabile ricercatore, mai appagato, anzi costantemente esposto al dolore e alla sconfitta, quando scopre l’incommensurabile distanza tra sé e l’Assoluto, tra il suo essere finito e l’Infinito dispiegarsi della Verità. Eppure “quel di divino che è in noi” non si arresta e trasmuta in eros, amore verso la conoscenza, verso l’ altro e gli altri; si tenta, allora, la realizzazione della compiutezza attraverso l’appagamento dei sensi, la comunicazione intersoggettiva, l’incontro con l’altro mediante la costante problematizzazione e le risposte condivise, ma ogni forma imposta al divenire prorompente risulta sempre inadeguata, provvisoria, errata e necessitante di nuove rivisitazioni. L’impulso alla vita porta con sé il finire e il dileguarsi di ogni meta, la sua insignificanza e la sua morte, dalla quale, in un continuo panta rhei, un nuova vita è destinata a risorgere. Marida, attraversando la sua crescita, porta alla coscienza tutto ciò e, tuttavia, non rinunzia, alla ricerca dell’Unità del tutto, attraverso la ricomposizione delle parti, il superamento delle opposizioni, le connessioni anche delle piccole cose, sì da giungere ad “ un fantasmagorico castello” o ad “ un puzzle” ben saldato sull’equilibrio posto dal pensiero, salvo immediatamente dopo scoprire in tale ordine solo caos e il frantumarsi dell’unità in tanti cocci dispersi in una nuova ricerca, dalla quale dipende il senso della vita. Questa è l’unica certezza di Marida, e a questa ella intende dare corso anche affidandosi alla forza dei sentimenti e delle emozioni, attraverso la poesia e l’arte; la condizione dell’artista, comunque , non appare del tutto rassicurante, poiché in essa la protagonista si trova a vivere l’esperienza della sua diversità: la dolorosa sensazione di essere esclusa da qualcosa che gli altri condividono; che il suo destino sia di non vivere la vita, di essere rapita dal suo turbine gioioso, ma di assistere solamente a questo passaggio, di vederne il lento fluire simile ad un vascello che scivoli maestoso e silente sulle acque. All’artista mancato è negato financo il sogno di far rivivere la vita che egli ricrea in sé. Così, al di là di tutto, rimane il dolore, aspro o acquietato che sia, secondo i momenti della vita, e il disincanto e l’abbandono a vivere un’esistenza che somiglia, piuttosto, a una rarefatta visione, a immagine che tristemente dilegua. Il bisogno che Marida avverte di “venire” alla vita, quasi questa le sia stata negata sin dalla nascita, si esprime, sovente, anche mediante il sogno; attraverso la velatura delle immagini oniriche si rappresenta la corsa che Marida compie verso la vita, nel tentativo di venire fuori dal guscio del grembo materno, pure molto confortante ed ovattante, per proiettarsi “… in un ambiente ..angusto, la luce povera. Era un posto di oggetti dimenticati, di roba in disuso, un mondo farraginoso di cose morte, inservibili, che la infastidiva, e un po’ la disgustava, ma in cui era concentrato un misterioso fascino.” Il fascino della ricerca di senso che dà vitalità al continuo peregrinare dell’uomo e che si contrappone alla nausea avvertita quando il mondo esterno gli si pone dinnanzi senza significati, ovvero nell’anonimato di un’apparenza edonistica che avvolge chiunque rinunci alla sofferenza di essere se stesso, e dunque parte di un Tutto, sempre agognato e mai posseduto.
È l’uomo che ha scelto questo destino? È l’uomo che sceglie? O la sua libertà si gioca tutta nel ricamare un ordito dai disegni già tracciati? È l’azione dell’uomo costantemente orientata verso l’eterogenesi dei fini? Forse occorre postulare la libertà per poi volgersi verso la trascendenza nella quale anche potere “scommettere” su Dio, affinché gli uomini possano trovare sostegno per il loro essere come “canne al vento”? Il mistero, allora, è dell’Eterno e dell’Assoluto che, così riflette Marida, “trovano carne nelle labili forme delle cose profane e corruttibili.”
Può l’uomo estranearsi dal suo sé, e quindi rinunciare ad essere quello che è, alla sua essenza, in un tentativo di acquetamento del dolore e di ritrovata serenità? Può l’uomo scegliere di non scegliere, superando in tal modo l’angoscia di essere se stesso? Spesso Marida tenta di tirarsi fuori da tanta inquietudine e dolore rifugiandosi in un cantuccio tutto suo dal quale, attraverso lo sguardo puntato sulle cose abbandonate e lì riposte, poter vedere scorrere la vita senza essere coinvolta da quella “strana ubriacatura che era la realtà nel suo divenire”; ma da quella visione degli oggetti inanimati Marida riesce a staccare la percezione di sé come di una figurina di carta ritagliata da tutto il mondo, e in tale percezione ella giunge a cogliere tutta la fragilità di un esistenza che si staglia sull’uomo quando questi si trova ad essere “cosa tra le cose”, “gettato nel mondo” essere inautentico in una vita inautentica dominata dalla chiacchiera e dal fluire degli eventi che tutto travolge in uno smarrimento in cui l’uomo perde se stesso; perciò quella figurina che Marida si trova ad avere tra le mani continua a tremare al vento tra le sue dita, quasi a chiedere ancora un altro soffio vitale, un altro tentativo di riappropriazione della vita, con il suo continuo incedere verso mete mai pienamente realizzate, con i suoi conflitti e le sue opposizioni, sempre provvisoriamente superati, con “la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo”, con la tensione propria dell’Essere quando è alla ricerca di se stesso, con la solitudine che lo accompagna quando è al cospetto del mistero.
“La solitudine è la tua debolezza, il tuo castigo. Ti vive dentro quando ti accorgi quanto siano vani i tuoi sforzi di capire ed essere capito, quando il mondo dell’altro si nasconde dietro quell’involucro coriaceo, troppo duro, difficile da attraversare”; così riflette Marida, questa è la condizione di chi ha potuto verificare le difficoltà della comunicazione con l’altro, perché il cum- prendere è sempre un atto di forza che l’ Io compie nel suo appropriarsi della realtà e nel suo confonderla con la verità; per questo molto impegnativo appare a Marida il compito della contemporaneità di chiamare a dialogo la pluralità dei tanti punti di vista in cui si frantuma oggi la verità, tra sogno e apparenza, tra relativismo ontologico e morale, tra “muto frastuono” dei mezzi di comunicazione di massa e cultura di massa. Tante verità? Una verità tra tante? Una verità colta da tanti punti di vista? E se l’uomo si lasciasse prendere dalla tentazione di fare passare per Verità la verità del singolo soggetto affidandosi al canto ammaliatore della parola e ai suoi artefizi ben costruiti per diffondere certezze incantatrici e mistificatrici? Marida ricorda quanto da lei studiato in filosofia, ricorda la lezione lasciata all’umanità futura dalla Sofistica e dal suo successivo sviluppo; da lì vuole ripartire nel suo viaggio volto a restituire al pensiero la capacità di andare oltre le apparenze dell’ Essere, spogliando le cose dal malessere che le avvolge e ritrovando nella parola la tensione a rappresentare la forma autentica dell’essenza, in un riaffermato valore dell’uomo colto nelle sue dimensioni originarie e naturali, nella sua “terrestrità”; progressivamente Marida matura la consapevolezza , però, che tale percorso non può realizzarsi in isolamento, come monade tra le monadi, pur avendo potuto, altresì, vivere la sofferenza della apertura all’altro quando le stesse parole si tingono di colori e sfumature che dello stesso segno rendono significati diversi, quelli dettati dalle diverse emozioni , dagli inafferrabili sentimenti, dalle poliedriche sensibilità: “Come è possibile che io capisca la gradazione di significato che una parola ha per l’altro, se per me non ha la stessa gradazione? E poi… il mondo e fatto di tante parole e di tante cose, e ogni cosa non è mai sola, e tutto è mescolato insieme. Insomma, voglio dire: se mi permetto di valutare, è con cognizione di causa che devo farlo, ma com’è possibile avere cognizione di causa, per mezzo di quali strumenti?” E’ questo quello che pensa ad alta voce Marida confrontandosi con l’uomo che in quel momento le porge la serenità scaturiente da una ritrovata completezza, da un fugace appagamento del dolore, possibile grazie all’amore tramite il quale ricomporre l’assoluto vagheggiato.
La solitudine si configura, allora, come diversità ed estraneità: è la condizione di chi sperimenta l’impossibilità di riconoscere nell’altro la sua parte mancante, l’opposto-uguale per mezzo di cui ricomporre l’unità del Tutto, la sintesi dell’Assoluto. “Persino quando sei passato al di là di ciò che racchiude l’essenza dell’altro, al di là di quell’ involucro coriaceo, puoi, talvolta, con rammarico, vedere d’essere penetrato in un mondo estraneo, imprevedibilmente gelido, e sentirti disarmato e solo”; queste le considerazioni di Marida che la riconducono indietro nel tempo, a quando, già provata dall’esperienza dolorosa della perdita della madre, aveva visto la vita: “ tutta distesa ai suoi piedi, disegnata per linee ben definite e immutabili, come una valle che ella dominasse dall’alto. Ma avvertiva una distanza incolmabile tra sé e la valle, come se mai avrebbe potuto mettervi piede, né alcuno avrebbe mai potuto raggiungerla là, nel posto da lei abitato, inattingibile dal basso quanto dall’alto era per lei la valle”.
Una sconfitta annunciata? E’ questo lo scacco a cui va incontro l’uomo che non ricusa il proprio essere? Occorre, allora, rinunciare all’affermazione del valore dell’uomo nella sua“forma razionale” dell’Essere? O , invece, è possibile ricordare quanto già indicato da Kierkegaard a proposito dell’angoscia come condizione di accesso alla libertà, perché “distrugge tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni….per questo più profonda è l’angoscia e più grande è l’uomo”.
Lasciato il periodo dell’adolescenza e divenuta ormai adulta, Marida ritorna nei luoghi dove aveva iniziato la ricerca di sé e avverte nelle cose che l’attorniano, nel paesaggio circostante e in se stessa un rimando ancora all’adolescenza, al quel periodo di inquietudine, di domande e di insoddisfazioni continue che accompagnano lo “stupore” e la “meraviglia” di fronte al mondo e al suo mistero; Marida, e con lei il lettore, sente ancora pulsare in sé quasi un impulso a non abbandonare mai la vita, perché l’adolescenza infinita ricorda ancora che “…una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”. A qualunque costo.