Appuntamenti
Sedici storie con sedici personaggi, tutti inchiodati all’orologio di una stessa giornata che scandisce la vita. Ricchi e poveri, vecchi e giovani, uomini e donne, con caratteri semplici o complicati, tutti, in una certa ora, segnata da un avvenimento piccolo o grande, si ritrovano a fare i conti con se stessi. Come dentro la macchina di una risonanza magnetica. Da quel momento non saranno più come prima: non è un caso che le sedici storie hanno un finale inatteso. Con i sedici protagonisti che attraversano sedici ore della stessa giornata è il lettore: la commedia umana non si finisce mai di scrivere. E di vivere.
L’orologiaio
«Questo è un bell’oggetto.»
È stato così che si sono messi a parlare. Lui era entrato nel negozio e aveva atteso che si liberasse di un altro cliente. Era stata la sua segretaria a dirgli della telefonata. «Ha chiamato Cavalli, ha una pendola antica, vorrebbe che la vedesse.»
La segretaria conosce bene questa sua debolezza. In casa ne ha già tanti, ma non dice ancora basta. Per questo, anche oggi, era entrato con curiosità. Nell’attesa aveva cercato con lo sguardo, ma non era riuscito a individuare “l’oggetto per lui”.
Cavalli, poi, gli aveva indicato la parete e una forma che non era riuscito a riconoscere subito. Aveva seguito la mano dell’orologiaio il quale, senza parlare, aveva preso un piccolo rettangolo di carta abbastanza rigido e lo aveva infilato nella feritoia alla base della cassa in legno di rovere scuro. Poi aveva abbassato una leva.
«Funziona perfettamente. È del 1907. Se le piace, a lei lo vendo per 900 euro. È un bell’oggetto.»
Un orologio marcatempo, uno strumento di controllo. Era la prima volta che Cavalli gliene proponeva uno.
«A lei che è un dirigente d’azienda non debbo certo spiegare a cosa servisse.»
E lui, l’ing. Ballo, si era distratto per un attimo. La sua mente gli aveva fatto lo scherzo di riportarlo indietro di qualche ora, seduto alla sua scrivania, davanti allo sgomento del dipendente, quando gli era stato detto che non avevano più bisogno della sua opera. Un uomo vicino ai cinquanta che aveva urlato: «Per diciotto anni ho fatto il mio dovere. Per diciotto anni non c’è stato un giorno in cui sia mancato. Per diciotto anni, mattina e sera, ho timbrato il mio cartellino.»
Cavalli continuava a parlare, a illustrare le caratteristiche di quell’orologio.
«Guardi. Qui sono indicate quattro posizioni, perché all’epoca si lavorava di mattina e di pomeriggio, per cui ogni volta bisognava spostare quest’altra leva, per selezionare l’entrata giusta e l’uscita giusta. Timbrare era un po’ più complicato di oggi, ma in sostanza cosa è cambiato?»
«A ognuno il suo mestiere.»
Non sa perché lo avesse detto. La battuta gli era venuta improvvisa. Cavalli lo aveva fissato. Forse non capiva. Forse avrà pensato ad un complimento per la sua competenza. Forse si sarà sentito ringraziato, visto che non manca mai, quando ha per le mani qualcosa di interessante, di informarlo. Certo è che dell’orologio non aveva più continuato a raccontargli la storia, le funzioni, la qualità del meccanismo. Lui, l’ingegner Ballo, pur senza essere esplicito, ma con educazione e insieme fermezza, aveva formulato un invito e la sua impressione è che fosse stato accolto. Cartellini, controlli, tempi di lavoro, erano materia sua. Sentirne parlare da altri gli sembrava improprio. Una vera ingerenza. Anzi, a far crescere un po’ il suo disagio, la sua insofferenza, come mai era capitato in precedenza, aveva contribuito il cartello che tante volte aveva visto in negozio e che non lo aveva mai stupito, se non per la sua ovvietà. Su quel cartello, grande come una mattonella, era scritto: “Da sempre l’uomo controlla il suo tempo”.
«Noi orologiai siamo indispensabili.»
Cavalli, che aveva taciuto per qualche attimo, aveva deciso di difendere la sua categoria. Ne aveva alzato il valore, forte di quel cartello. Non gli era sfuggito che l’ingegnere lo avesse guardato con una certa attenzione. Aveva anche sorriso. Era convinto di aver detto una specie di verità che tutti avrebbero dovuto sottoscrivere.
Ma l’ingegnere aveva voltato la testa, alla ricerca di altro di cui parlare. Poteva tranquillamente essere finita. Aveva esaurito il suo tempo libero. Lo aspettavano in ufficio. Due incontri già programmati. Sarebbe tornato, se mai gli fosse venuta voglia di un orologio del genere.
Cosa gli avesse impedito, invece, di salutare e andare via, promettendo semmai di tornare presto, quando avesse avuto più tempo, non riesce a immaginarlo. Sentiva un peso e aveva deciso di liberarsene. Pur di replicare, era ricorso ad un’altra ovvietà:
«Nessuno di noi è indispensabile.»
E non era stato capace di sorridere, anche perché erano le stesse parole che aveva usato con la persona che aveva liquidato. La persona che gli aveva urlato la sua rabbia, la sua umiliazione. La persona che aveva inutilmente preteso di conoscere le vere ragioni che avevano portato al suo licenziamento. La persona alla quale non ha potuto dire che c’era già un sostituto. La persona che si è rifiutata di prendere atto che nessuno è appunto indispensabile e che se la ruota gira in un certo modo, bisogna saper stare al gioco. Perché il mondo va così e chi è giovane e costa meno passa avanti a chi ha già diciotto anni di lavoro sulle spalle.
L’orologiaio non poteva assolutamente sapere quello che era successo, la mattina, nell’ufficio dell’ingegnere. Solo per il gusto di tener viva la conversazione, aveva aggiunto una postilla:
«Ingegnere lei ha ragione, ma ammetterà che non è facile accettare di non essere indispensabili.»
Nulla che lo riguardasse. Nulla che potesse fare riferimento al suo modo di fare il direttore del personale. Ne era sicuro. Ma qualcosa doveva rispondere e se l’era cavata così:
«Diciamo che gli orologiai sono indispensabili. Ma non lo sono, ad esempio, anche gli avvocati? E lei, Cavalli, se non avesse già il suo mestiere, non sarebbe un ottimo avvocato?»
«Bravo a difendere anche qualcuno che lei licenzia?»
Cavalli, lo conosceva da tempo. Era sicuro di conoscerlo bene. Un ottimo artigiano di cui fidarsi. Aveva acquistato da lui, negli anni, quattro orologi. Ci aveva speso del danaro in quel negozio. Non avevano mai parlato di politica. Gli aveva visto leggere il Corriere della Sera. Gli era sembrato un moderato. Forse aveva simpatie di sinistra, ma amava troppo il suo lavoro per parlare di altro. Come poteva un uomo del genere aver interesse a mettere il naso in cose che non potevano riguardare il suo mondo? Qualcuno gli aveva parlato dell’Ingegner Ballo?
«Cavalli, Cavalli…»
«Ingegnere, chissà quanti dipendenti, forse operai, forse impiegati, hanno timbrato i loro cartellini usando questo orologio marcatempo. Lei se li immagina? Erano i primi anni del ’900. Questo oggetto è carico di storia. Non è un orologio appartenuto ad una persona soltanto. Ha segnato la vita di migliaia di persone. Lei mi deve scusare se mi sono permesso di scherzare. Mi piacerebbe però che questo orologio finisse nelle sue mani. Lei non ha bisogno che qualcuno glielo ricordi, ma lei conosce l’importanza del lavoro.»
Si era fatto convincere. Non era riuscito a trovare un argomento valido per rinviare almeno di qualche giorno l’acquisto. Aveva fatto finta di non sentire quel “ha vinto la passione del collezionista”.
«Ne abbia cura. Ma è inutile questa raccomandazione a lei. Quando lo avrà caricato e tornerà a funzionare regolarmente, quando il suono del pendolo, che le assicuro è molto gradevole, perché all’epoca ci tenevano e sceglievano bene, si farà sentire in casa sua, questo orologio non solo le farà compagnia, ma le darà buoni consigli. Lei mi dirà, poi. Io sono sempre pronto. Se non lo vuole, me lo restituirà allo stesso prezzo che ora io le chiedo… Ci sono a volte oggetti che sono più imbarazzanti degli stessi esseri umani.»
Si era preoccupato Cavalli di farglielo arrivare subito a casa ed ora era lì. Non aveva ancora deciso dove sistemarlo. Se nello studio, o altrove. Ora che lo aveva a pochi centimetri dai suoi occhi, osservava con attenzione lo stato del legno, la presenza, se ce n’erano, di danni, la collocazione del congegno deputato alla timbratura, il nome del fabbricante, tedesco, su una targhetta dorata. Poi aveva aperto lo sportello a vetri, per toccare il pendolo, il quadrante, esser certo che tutto fosse in ordine e poi usare la chiave per rimetterlo in moto.
È stato allora che quel suono lo aveva investito. Conosceva altri orologi a pendolo, ma nessuno gli era mai apparso così invadente, così eccessivo nel suo moto. Come se avesse voluto rifarsi del tempo in cui era rimasto fermo, inutilizzato. Come se volesse ora prendere confidenza con l’ambiente per poi imporre il suo ordine, il suo ritmo al quale nessuno può derogare.
All’improvviso l’ingegnere aveva visto l’azienda per la quale l’orologio aveva registrato presenze ed assenze. Quelle migliaia di lavoratori, evocati da Cavalli, li sentiva ora vicini. Come se non potessero fare a meno di servirsi di quella macchina, perché quella macchina era per loro un segnale di sicurezza, di sopravvivenza, di vita. Sensazioni strane, che non aveva messo in conto.
Si avvicinava la notte. Doveva decidere. Cosa aveva voluto dire Cavalli, parlando di un orologio che gli avrebbe dato buoni consigli? Lui, quanto al lavoro da gestire in azienda, non ne ha bisogno. Non ha mai dubbi sulle decisioni da prendere. Semmai, a volte, imbarazzi, perché la gente non si arrende all’evidenza e pretende l’impossibile. Pretende di lavorare. A tutti i costi. E questo, per lui, per il suo ruolo, è inaccettabile.
Il punto è che lui, di notte, deve dormire. E quel pendolo fa troppo rumore. Anche se lo spostasse, lo sentirebbe ugualmente nella sua camera da letto. Domani chiamerà Cavalli. Gli chiederà di riprenderlo e di trovargliene un altro. Silenzioso e che non dia consigli.