Archivio rosso
In questi cinque capitoli autobiografici c’è accanto alla ricostruzione storica la forza delle idee, le illusioni, le lotte, l’impegno civile, l’internazionalismo proletario, le piccole vittorie, le grandi sconfitte di un’intera generazione e di una stagione di speranze. Questo archivio della memoria è un messaggio per il lettore di oggi che si avvia ad una società senza ideologie.
Scrive nella Prefazione Luciana Castellina: "Queste pagine sono straordinarie letterariamente, innanzitutto; e poi anche per lo squarcio di realtà storica che ci restituiscono”.
Luca Canali ha esordito come poeta sulla “Fiera Letteraria” di Angioletti e Ungaretti. Durante la Resistenza ha militato per il Partito d’Azione. Iscrittosi al PCI nel 1945, fu radiato nel 1958 con altri intellettuali per la redazione di “Città Aperta”, rivista del dissenso. Ha insegnato Letteratura latina nelle Università di Roma e di Pisa. Ha tradotto Virgilio (l’intera opera), Lucrezio, Catullo, Orazio, Tibullo, Properzio, Ovidio, Lucano, Petronio, Stazio, Prudenzio, Petrarca latino. Ha pubblicato poesia, saggistica, narrativa.
INCIPIT
L’iscrizione
Era l’anno in cui Togliatti insegnava ai deputati comunisti che bisognava andare nei consessi con l’abito blu e la cravatta rossa o grigia, le scarpe, non importava se gialle o nere oppure sandali. Arturo C. in treno dall’Emilia a Roma per le sedute parlamentari non rivolgeva ancora la parola ai deputati di altri partiti, a malapena ai socialisti. Era l’alba contrastata del “nuovo corso”, senza più camicie aperte alla Robespierre e deposti i mitra delle Brigate Garibaldi.
Stanco di sfiducia e malattie, e di frequentare postriboli, ansioso di compiere un gesto che ridesse senso alla mia giovane carcassa, e alla mia mente confusa da un triennio di eventi caotici, deluso dalla liberazione multicolore USA, britannica, francese, polacca, euforica e lanzichenecca, decisi, soprattutto per smania di rinascere a un’idea di civile maturità, di iscrivermi al partito comunista.
Allora il Manifesto di Marx si acquistava anche nelle edicole, mischiato a “Cantachiaro”, “Folla”, “Signorina sette”. Quello che mi misi in tasca e andai a divorare su un prato di Villa Borghese, avvolto nel mio sdrucito tre quarti, ma ben coperto da un maglione americano con il collo alto sbieco, era un’edizione tascabile oblunga, con copertina rossa e caratteri neri grassi sbaffati su carta porosa, senza commento, suggestivo nella provvisorietà esteriore, biblico nella rudezza del dettato, avulso da contesti storici e arzigogoli esegetici. Ne fui folgorato, consolato. La prima reazione fisiologica a quella lettura fu avvertire una gran fame. Mi sentii meno rassegnato alla china viziosa e innocente dei miei venti anni.
Sapevo che in via Nazionale c’era una sede del Partito. Erano le dieci del mattino. Al bar del Pincio presi una fetta di pizza e un caffè, e discesi per via Francesco Crispi, imboccai il Tritone, il Traforo. In via Nazionale chiesi a un vigile dov’era la sede del PCI; quello indifferente mi indicò poco lontano un palazzo con una bandiera rossa al vento. Salii, entrai in un salone dove uomini del servizio d’ordine in maniche di camicia – non si era in Parlamento, qui, – due ex partigiani ora di scolta a riunioni e scartoffie legalitarie, mi chiesero con tutta la poca gentilezza di cui erano capaci chi e che cosa cercavo. Risposi che venivo a iscrivermi al Partito. Mi aspettavo una risposta rincuorante, un po’ di entusiasmo.
Mi dissero semplicemente che allora avevo sbagliato indirizzo, quella era la Direzione, dovevo andare nella Sezione territoriale. Rimasi perplesso. Non sapevo niente di organizzazione, della terminologia comunista conoscevo solo compagno, cellula, agit-prop, commissario politico.
«Dov’è la Sezione?» chiesi. «Dove abiti?» mi risposero. Alla mia indicazione dissero: «Allora Sezione Trevi-Colonna-Campo Marzio, in via Tomacelli.»