Autobiografia in do minore

Autobiografia in do minore

sottotitolo
Racconto di scoordinata sopravvivenza
copertina
anno
2006
Collana
Categoria
pagine
128
isbn
88-8176-844-5
nota
Con una nota di Anna Grazia D'Oria e un inserto fotografico
Evviva l’altopiano di Camuti che mi vide bambino. Cominciai a scrivere poesie all’età di nove anni, adeguandomi alle consuetudini della famiglia e del mio paese, Mineo, dove gli abitanti in maggioranza erano poeti vernacoli, in gran parte analfabeti, contadini poveri, raccoglitori d’ulive, venditori d’acqua, pietraroli, calzolai, barbieri, sarti, guardiani di buoi, o caprai, e camposantari e artigiani che, per il loro mestiere, erano portati a fare delle considerazioni sulla fugacità di ogni cosa.
Ma la verità è una: debbo fare tutto da me, non ho un gatto, o una formica che mi aiutano. E la mia solitudine, che amministro e cerco di superare da solo, mi spunta come ombra sempre davanti. Ma in questo c’è un grande mio gioco fra narcisistico e retorico e infantile.
 
Giuseppe Bonaviri è uno dei maggiori scrittori italiani, tra i più tradotti all’estero.
Con Manni Editori ha pubblicato Lip to lip (1988) e E il verde ramo oscillò (1999), questo insieme alla figlia Giuseppina; le poesie Poemillas españoles ed altri luoghi (2000); il libro per ragazzi Acqua d’argento e altre storie (2003).

Incipit
 

Partiamo dal mio albero genealogico (se così si può dire, ma amando, fra gli altri, ulivi e mandorli, direi):
Ulivo (o albero) genealogico dei Casaccio
Per via materna, essendo quest’albero di per sé più umoroso e ricco di sostanze vitali, ne faccio, o lo uso come, “logo” per la parte materna.
     Mio bisnonno Antonio Casaccio, da quanto mi diceva mia madre, aveva una bottega in cui vendeva verdure. Non so in quale parte del paese l’avesse; comunemente ai miei tempi questi negozi, anche di genere alimentare, erano per lo più allogati in piazza Buglio.
Si sposò due volte. Dalla prima moglie mi pare avesse avuto due figli: Salvatore, mio nonno, e una sorella di cui non ho altri dati sicuri.
Credo che dalla seconda consorte abbia avuto tre figli, ma il primo morì (allora la mortalità infantile era molto alta) a pochi mesi.
Poiché mio nonno, allora bambino di otto-nove anni, vedeva che la matrigna piangeva sempre, andò, credo con altri compagni, al cimitero, allora aperto, senza cancello, e collocato, dove tutt’oggi si trova, su un dossone di terra, allargato da un quarantennio in terrapieno a destra (di chi vi arriva) che digrada in basso. Con i compagni, riuscì a prendere, dalla piccola bara che forse era tuttora scoperchiata per i tre giorni voluti dalla legge mortuaria, il fratellino morto e lo portò alla matrigna con grande spavento dei vicini. Da allora, come mi raccontava mia madre (sarà stato vero?), il sindaco ordinò che l’ingresso del cimitero fosse protetto da un cancello.
Tale fatto lo ho sfruttato, modificando i nomi, per un mio racconto incluso in Novelle Saracene. Identificai mio nonno in Gesù bambino, la matrigna in Maria, e il bambino morto in un immaginario fratellino di Gesù.
     Mio nonno Salvatore, nato a Mineo il 14 giugno 1847, vi morì il 21 novembre 1933. In quel giorno, su idea di mio padre e di mia madre per non farci turbare dalla vista del morto, andai, assieme a mio fratello e mi pare a Vincenzo Bellino Jaluna, ragazzo che lavorava nella bottega di mio padre, alla Nunziata dove si trovava tuttora mio zio Michele e credo anche mia zia Pipì, la moglie, e figlia primogenita di mio nonno. Il giorno era nuvolo e mi pare che noi fossimo andati con un “cerchio” di ferro che ci serviva, fissandolo con una bacchetta altrettanto di ferro che finiva ad uncino, per giocare, facendolo scorrere per lo stradone. Ricordo il vago senso di malinconia che ci dava e mi dava il pensiero della morte di mio nonno. Il quale aveva 86 anni, età, per quei tempi, assai avanzata.
Il lavoro di mio nonno fu quello di panettiere. Secondo quanto mi raccontava mia madre, imparò il mestiere a Caltagirone, ma non so se visse per dei mesi in quella cittadina dirimpettaia al monte di Mineo, o se la raggiungesse addirittura a piedi, o con dei carretti, ogni giorno.
Certamente fu, se così si può dire, il più grande panettiere di Mineo per le tante qualità di pane che sapeva fare, fra cui maggiore spicco aveva il “panuzzi” bianco di sèmola.
Era molto sveglio, pragmatico, acuto, scaltro; con i figli usava metodi educativi severi o addirittura brutali. Si sposò a 21 anni (era molto elegante nel vestire) con Maria Palermo, figlia di un contadino, che ebbe ventiquattro figli di cui l’ultima fu mia madre. Ricordo mia nonna in una poesia (pubblicata ne I cavalli lunari, Scheiwiller, 2004) che trascrivo:
A mia nonna
A mia nonna Maria Casaccio Palermo
(a cui, su ventiquattro figli avuti,
ne morirono diciassette in tenera età)
Nonna Maria, diciassette stelle brillavano
sul tuo tetto, ma in pochi anni rotolarono
a fondovalle nel singhiozzante torrente.
Diciassette tuoi figli morivano
bambini in quei mali anni, ad uno ad uno;
ri-annebbiavano ogni volta la tua mente.
Passava l’unguentario gridando
per i vicoli, e tu spalmavi i morti bimbi
d’unguento d’ambrosia e cannella.
Collocavi i corpicini nei canestri con lembi
di seta e campestri roselle, quando
il becchino se li portava nel carrettino.
Le stelle in piccole onde si scioglievano
sempre di più, i grilli stridevano, e, a notte,
le civette meste cantavano fra gli ulivi.
Immobili i cipressi, nella fossa comune
la carnuccia dei tuoi bimbi si mischiava
a vermi, ginestre, ossa, e antichissimi crani.
Ringhiavano i cani. Nel convento pregavano
per quei bimbi, e i morti tutti, ma le stelle
si sbriciolavano fra aguzzi acquei sassi.