Borderline
Borderline
Il suo primo romanzo, del 2007, è Con i ghiri e con la serpe (Giraldi).
INCIPIT
«Dottooore….!»
«Uhè…! Carissimo…, salve, salve…!»
La risposta, che istintivamente mi saltò fuori esagerata e sovrattono, mi fece piombare in uno stato di prostrazione, di fragilità e di pateticità, simile per certi aspetti a quello di chi si senta oggetto dello sberleffo del mondo intero, della sua derisione. Me l’aveva fatta! Quel figlio di zoccola era riuscito ancora una volta a cogliermi di sorpresa! Senza concedermi alcuna altra possibilità se non di subire in pieno le conseguenze del comportamento abitudinario che mi portava tutte le mattine a transitare da quel punto, diventato una vera e propria replica delle forche caudine, non appena avevo svoltato l’angolo per immettermi sul corso principale, lucido di una attaccaticcia umidità di scirocco che da settimane stagnava sulla città, mi si era parato dinnanzi in tutta la sua disdicevole bonomia, salutandomi d’anticipo e con una ’mbocica che non lasciava scampo: uno sbiascico dal sapore di trincea, di comunanza di lotte contro il male, di condivisione di un passato di azzardi e di battaglie. Un porgersi tanto sussiegoso da riuscire a causarmi una sgradevole sensazione di spiazzamento e da stillarmi nel fondo dello stomaco un fiotto di amaro che, sapevo, mi avrebbe punzecchiato le budella per il resto della giornata.
«Porca puttana, ma chi è?» mi chiesi per l’ennesima volta, stizzito da quella che sembrava essere diventata una storia senza fine. Da settimane, infatti, ogni mattina lo trovavo lì, appostato dietro lo spigolo; pronto a tendermi quel tranello fastidioso, carico di allusioni, di voglia di rinverdimento di un trascorso ove le nostre sorti dovevano essersi intrecciate, smanioso del riallaccio di un rapporto che, data la vitalità che, a quanto mi dava a intendere, ancora possedeva, doveva essere stato particolarmente lungo e importante. E del quale, tuttavia, la mia mente aveva cancellato ogni traccia.
Cappotto blu, baffetti alla Clark Gable, capelli neri brillantinati, mi squadrava con l’aria di chi dell’umanità conosce misteri e retroscena esclusivi, motori fondamentali, meccanismi primari, celati alle masse e riservati in prerogativa esclusiva a una schiera ristretta di eletti, della quale egli e, a quanto pareva, io, dovevamo fare parte. Quel mieloso saluto, veicolato da una voce che in fondo in fondo aveva un che di familiare, mi comunicava questo privilegio, da cui evidentemente quel legame, quella segreta intesa.
Riflettei sulla circostanza che negli ultimi tempi la memoria aveva preso a giocarmi brutti scherzi. In presenza di situazioni impreviste, infatti, aveva, di tanto in tanto, manifestato un certo affanno nel recuperare i volti e i nomi delle persone e, soprattutto, nel collegarli alla mia precedente realtà lavorativa, ai ruoli e alle mansioni che le stesse potevano aver svolto all’interno di quel gigantesco tritacarne che era lo stabilimento. Mi era capitato, camminando per strada, di rispondere a un saluto, con enfasi, lì per lì, per mascherare le defaillances, senza essere in grado di ricostruire il profilo della persona incrociata e l’importanza che poteva aver avuto nella mia vita. Il buio di solito durava poco: difatti, con una certa velocità, le sinapsi delle cellule neuronali si risistemavano nei giusti gangli, consentendo ai singoli dettagli di incastrarsi ordinatamente nel puzzle allentato dei ricordi. Ma in quel caso no! Con quel tizio, che tutte le mattine sembrava prendermi deliziosamente per il culo, non c’era niente da fare, non funzionava. Una cancellazione totale. Un uomo degli impianti? Della vigilanza o della manutenzione? Uno dei servizi generali, di quelli che bazzicavano nei corridoi della direzione e che di ogni ufficio, di ogni capo, conoscevano vita, morte e miracoli, nei minuti particolari? Non mi riusciva.
«Dottooore…» diceva, strascicando il suono e accompagnandolo con un leggero piegamento del capo; ed io cominciavo a prenderlo seriamente come un rimprovero preciso, una tirata di orecchi. Nel senso di “Com’è, niente siamo? Estranei? Dopo tanti anni nella stessa barca, dopo tante lotte; forti del nostro orgoglio, delle nostre ragioni?”
«Ma quali lotte? Quali ragioni?» rispondevo dentro di me, inviperito da quelle assurde fantasticherie. «Possibile che il cervello mi abbia abbandonato fino a questo punto? Chi è costui?» Mi imposi di ragionare, con calma; di fare mente locale al tempo che avevo trascorso nei diversi uffici, alle persone che avevo conosciuto, e che erano migliaia. Un filo, se c’era, doveva saltare fuori! L’uomo, in ogni caso, non aveva affatto l’aria di chi stia in attività, sembrava piuttosto un disoccupato, o meglio, un pensionato. «Un prepensionato, in uscita anticipata per l’amianto» pensai. Era comparso, in effetti, di punto in bianco, in quei giorni; e probabilmente, come tutti i pensionati all’inizio del loro nuovo stato, con tante ore libere a disposizione, era bramoso di riprendersi a grossi bocconi la vita, i luoghi, le cadenze della città, l’apertura dei negozi, il brusio dei bar, i giornali, il passeggio, che gli orari stringenti della fabbrica presumibilmente gli avevano fin lì negato. Sulla cinquantina, grassoccio, stava fermo a quell’angolo con l’aria di chi stia in attesa di un evento straordinario, quale il transito di un vecchio amico, o lo scoppio di un tumulto, il manifestarsi di un miracolo, guardandosi intorno con un atteggio carico di malinconico compiacimento, fiero del suo distacco, orgoglioso dei suoi segreti.