Chiamami maestro
Attraverso il diario inedito di Girolamo Comi, fedelmente trascritto, Donato Valli rievoca lunghi anni da cui emergono nitide la figura del poeta che in tempi bui rapportava il Salento alla cultura italiana, e la storia di una generosa amicizia intellettuale.
Donato Valli è nato nel 1931 a Tricase dove vive quando non è a Lecce.
Nell’Università del Salento è stato ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea e Rettore dal 1983 al 1992.
INCIPIT
L’incontro
Una mattina di quell’agosto assolato un’auto ben tenuta e lucida si fermò davanti alla porta centrale della casa paterna, dopo aver percorso, sobbalzando lentamente, il tratturo dissestato che collegava la dimora con la via, allora sterrata, che conduceva al cimitero. Preoccupazione e imbarazzo da parte di mia madre, già pronta a dare giustificazione di qualche mia nascosta disavventura. Era, invece, Vincenzo, estrosamente noto in paese col soprannome di “Paparina” per via delle abbondanti scorpacciate di quell’erba agreste negli anni di fame e di miseria della guerra. Rassicurò mia madre: egli era solo il messaggero di un invito da parte del barone Comi, il quale desiderava conoscere quel ragazzo menzionato dalla “Gazzetta” per la votazione di fine anno.
Fu così che mi preparai, emozionatissimo, all’incontro. Di Comi conoscevo solo il nome e il titolo di un libro in prosa, che mi aveva fatto vedere in terza media un compagno di studi, legato non so per quale affinità parentale col critico Oreste Macrì, amico di Comi. Si trattava di Aristocrazia del Cattolicesimo, che avevo letto più per curiosità e snobismo che per interesse, senza ricavarne alcun costrutto.
Dall’ampio portone del palazzo baronale, salii la rampa dello scalone, logorato dal tempo, che immetteva nella stanza d’attesa. Mi venne incontro un’esile signora, che immaginai subito essere la moglie del poeta; mi precedette per la stanza d’ingresso, attraversò il solenne salone riservato alla biblioteca e agli incontri, lo studio stracolmo di libri disordinati, disposti in tre scaffali con tracce evidenti di letture e consultazioni, una stanzetta di disimpegno priva di mobili e d’addobbo. Quella successiva era l’ampia camera da letto, dove giaceva il poeta, vittima d’una sciatalgia che lo aveva costretto all’immobilità per più settimane.
Imbarazzatissimo, sussurrai: “Buongiorno, barone!”
Mi guardò arcigno: “Non chiamarmi barone; non sono barone!”
Corressi il tiro e mormorai, timoroso: “Buongiorno, professore!”; mi rispose freddo: “Non sono professore; non ne ho il titolo e non ho mai insegnato.”
Non sapevo più cosa dire, mi veniva da piangere.
Lui paternamente disse: “Chiamami così come fanno i russi, con il nome e cognome: Girolamo Comi!”
“Non ne sono capace”, sussurrai.
E lui finalmente, mi tolse l’imbarazzo sorridendo: “Se proprio non ce la fai, chiamami: Maestro!” Poi, diventato triste e sopraffatto dal dolore sciatico, sussurrò: “Tu farai come gli altri. Vengono a visitarmi per curiosità e poi spariscono.”
“Ti prometto che tornerò”, dissi con voce ferma.
Cominciò così, da quel giorno, una solidarietà simile assai a quella che corre tra padre e figlio.