Ci vorrà del tempo

Ci vorrà del tempo

copertina
anno
2005
Argomento
Collana
Categoria
pagine
136
isbn
88-8176-668-x
14,25 €
Titolo
Ci vorrà del tempo
Prezzo
15,00 €
ISBN
88-8176-668-x

Il tempo e la scrittura propri dell’identità femminile sono i temi di fondo di questa storia che si compone anche di brani non narrativi, documenti, lettere, pagine di diario: per dichiarare il valore etico della memoria che, con registri diversi, è testimonianza della continuazione e dell’accrescersi della vita.

La lettura di Luisa Ricaldone
 
Il romanzo d’esordio di Manuela Ormea è suddiviso in tre parti (seguite da una brevissima conclusione) che corrispondono a tre luoghi geografici: le valli di Lanzo, in particolare la località Passo della Croce, poco sopra Chiaves, l’India e la Liguria. Il tempo è quello intorno agli anni Novanta con qualche flash for sul 2002. Il tema: cinque amiche si incontrano al Passo, in una stupenda casa affacciata sulla valle, ciascuna con il proprio bagaglio di esperienze acquisite negli anni. Tiene il filo l’io narrante, Maria, poco più che quarantenne. Si discute di figli, di amori, di scuola, molto di scuola, essendo la più parte delle convenute insegnanti. Fuggevoli le presenze maschili: Mauro, che compare rapidamente nel primo capitolo; il marito, che si affaccia nell’ultimo; il giovane aspirante-amante di Monica; infine Lorenzo, il ragazzo cui sono affidati, nella parte finale, il ruolo di critico della società dei consumi e della globalizzazione, e il messaggio di cambiare il mondo. Compito necessario, per il quale ci vorrà del tempo.
Il romanzo incrocia ambiente (tendenzialmente) monosessuato e scuola: vengono in mente di Alba De Céspedes Nessuno torna indietro, la storia di otto giovani in un collegio femminile, e Fantasia di Matilde Serao. Vi sono modelli anche più recenti, dove però i due aspetti risultano disgiunti (Paola Mastrocola, per esempio, nei cui romanzi la scuola è mista); oppure Ritratto di gruppo di Luisa Passerini, dove è una generazione di donne che si confronta.
Libro composito, questo di Manuela Ormea, sia nella struttura che nella scelta dei generi letterari: la narrativa si alterna al carteggio, il diario a versi e a documenti. (Mi è venuto in mente, anche se la contestualizzazione è decisamente altra, di Rosetta Loy La parola ebreo, dove la memoria narrata di sé bambina si intreccia con brani tratti dalle leggi razziali fasciste). Il collante di questa mescidazione è costituito dal filo della memoria, che lega passato e presente affacciandosi sull’utopia del futuro.
Da rilevare, ancora, gli inserti in corsivo, attraverso i quali Manuela si interroga in vari modi su un nodo che le preme sciogliere: come riconoscere la propria interiorità? che resta di me se sottraggo ciò che le altre e gli altri hanno fatto di me? Si tratta di interrogativi che pongono il problema della relazione, dell’amicizia, del rapporto con altre culture, altre civiltà (si veda l’ultima parte aperta sull’India), ma anche il rapporto con i diversi (la figlia di Serena è down). Ma su questo aspetto, centrale secondo me, ritornerò in chiusura. Ora interessa accennare alle letture che hanno costituito l’officina della narratrice: Françoise Dolto, Simon Weil, Cristina Campo, e poi Erika Jong, Yehoshua, Salgari. Conclude il libro il diario incrociato di una madre e di un figlio appena partito per l’India: la prima colma lo spazio e il tempo lasciati vuoti dall’assenza del figlio scrivendo i pensieri che le hanno attraversato la mente, le domande, le curiosità, mentre il secondo ferma sulla carta le emozioni, i turbamenti che sta vivendo a contatto con la realtà di quel paese e, scosso com’è dalle condizioni di estrema povertà di quella terra, chiede in un crescendo di emotività giovanile e generosa di cambiare.
L’amicizia, si diceva. Gli antichi ritenevano che una vita umana non potesse fare a meno degli amici. Si ha bisogno degli amici nella sfortuna, ma gli antichi, al contrario, pensavano che non esistesse felicità per un essere umano se un amico non la condivide. Gli amici sono coloro ai quali non esitiamo mostrare la nostra gioia. E il termine condivisione è ricorrente nel libro di Ormea. Vi è però anche una rilevanza politica dell’amicizia, che mi pare Manuela abbia messo bene in rilievo: il dialogo innanzitutto, di donne e fra donne. E’ dal dialogo che si edifica la polis; ed è a partire dal “tu che mi guardi, tu che mi racconti” – per citare il titolo di un fortunato saggio di Adriana Cavarero – che è possibile costruire il proprio sé, la propria individualità e identità. E l’intera prima parte del romanzo è percorsa dal desiderio di ascolto e di parola, dove l’amicizia non risulta valore alternativo al conflitto, bensì ciò che permette di vivere il conflitto esprimendolo con le parole: questa è l’evidenza del vissuto e del pensiero con cui i soggetti donna hanno parte attiva nella costruzione plurale del mondo. L’intrecciare relazioni produce a propria volta intrecci storie narrazioni.
Per concludere, una breve passeggiata fra gli eserghi, che sono quattro raggruppabili a due a due: il Qohèlet del “per tutto c’è il suo momento” si accompagna all’Arpino dell’”andare con piede leggero oltre il cancro della nostra età”: messaggio di speranza nel cambiamento. Mentre Anais Nin, che scrive che “ogni amico rappresenta un mondo dentro di noi”, mondo che nasce solo “al suo arrivo”, ed è “solo grazie a questo incontro che può nascere un nuovo mondo” tinge di ottimismo l’idea tolstojana che nei rapporti umani l’amore sia così indispensabile “come lo è la precauzione nei rapporti tra l’uomo e le api”. Ancora una volta le “soglie” suggeriscono possibili chiavi di lettura del testo.