Coraggioso amore
La logica misteriosa della vita nelle pagine di Brave Love
Sono pochi gli scrittori, di qualsiasi epoca e genere letterario, ad essere stati tradotti nella nostra lingua con la frequenza accordata alla scrittrice neozelandese Katherine Mansfield. Tutte le principali case editrici italiane – Adelphi, Bompiani, Einaudi, Feltrinelli, Frassinelli, Garzanti, Guanda, Longanesi, Marsilio, Mondadori, Newton, Rizzoli, il Saggiatore e ora Manni – l’hanno inclusa e tenuta nel proprio catalogo, traduzione dopo traduzione, edizione dopo edizione, dal 1931 ad oggi.
Nata a Wellington, in Nuova Zelanda, il 14 ottobre del 1888, anno di nascita di altre grandi firme della letteratura (da Shmuel Yosef Agnon a Georges Bernanos; da Raymond Chandler a T.S. Eliot; da Eugene O’Neill a Fernando Pessoa al nostro Giuseppe Ungaretti), morì a Fontainebleau, in Francia, il 9 gennaio 1923, uccisa poco più che trentenne da un’emorragia polmonare causata dalla tubercolosi che già da tempo minava la sua salute. Ciononostante, Katherine Mansfield ha lasciato un segno importante nella letteratura moderna, meritando di essere annoverata senza esitazioni tra gli esponenti di punta di quell’estesa e dirompente avanguardia letteraria che da Italo Svevo a Ernest Hemingway – passando per Marcel Proust, Gertrude Stein, Hugo von Hofmannsthal, Robert Musil, James Joyce, Virginia Woolf, Franz Kafka, D.H. Lawrence, William Faulkner – diede corpo, nella seconda e terza decade del ventesimo secolo, al modernismo europeo, apportando un contributo decisivo all’evoluzione del romanzo e del racconto, genere in cui lei si impose subito, e di cui rimane tuttora maestra assoluta.
Eppure l’eredità lasciata dalla scrittrice neozelandese nella nostra letteratura non è ancora stata adeguatamente documentata, soprattutto in rapporto allo sviluppo della scrittura femminile. Basti pensare alle pagine diaristiche di Elsa Morante, pubblicate postume con il titolo Diario 1938 e legate da forti fila tematiche e stilistiche a quelle dello Scrapbook della Mansfield, da lei tradotto nel 1945 per Rizzoli con il titolo Il libro degli appunti (1905-1922) di Katherine Mansfield (poi riedito da Longanesi nel 1972 e quindi da Feltrinelli nel 1979 con un nuovo titolo, Quaderno di appunti); o agli scritti di Cristina Campo e Armanda Guiducci, entrambe sensibili lettrici e traduttrici di racconti mansfieldiani. E dire che nella folta lista di commentatori e traduttori dei suoi racconti, delle sue poesie, dei suoi diari e dei suoi epistolari non mancano le firme d’autore: oltre a quelle appena menzionate, si pensi a Emilio Cecchi, Giacomo Debenedetti, Pietro Citati.
Ma le testimonianze più forti di questo duraturo interesse restano quelle dei lettori. A titolo d’esempio voglio riportare quella di una lettrice con cui ho avuto modo di corrispondere nel corso delle mie ricerche sulla ricezione delle opere di Katherine Mansfield in Italia. Commentando Felicità e altri racconti (Bliss and Other Stories, 1920), riletto per l’ennesima volta, questa devota lettrice sessantenne mi scrisse:
"Ho letto questo libro a sedici anni, poi ho comprato tutti gli altri della stessa autrice, e li conservo gelosamente. Nel corso della mia vita li ho riletti svariate volte, ed ho notato che, col cambiare della mia vita e della mia età, mi hanno dato impressioni differenti... ma sempre mi hanno dato qualcosa, perché in quanto a sensibilità e affinità con l’animo femminile penso che nessuno possa battere la Mansfield... tutte le donne penso si siano trovate spesso in una di queste situazioni così dettagliatamente descritte."
A loro si aggiungono ora anche i protagonisti della storia narrata in Brave Love. Si tratta dell’ultimo racconto scritto da Katherine Mansfield, che ne affidò la redazione manoscritta alla scrittrice sudafricana Ida Baker, sua intima amica dai tempi del Queen’s College di Londra dove si erano conosciute nel 1903. Negli anni Cinquanta, poco prima che il manoscritto fosse venduto, la Baker si prese premura di fotocopiarlo: è grazie a questo suo (ennesimo) gesto di devozione se le pagine finali della Mansfield sono sopravvissute: degli originali, infatti, si è persa ogni traccia (la trascrizione del testo inglese a stampa è stata condotta su quelle fotocopie da Margaret Scott, eminente studiosa della Mansfield).
Brave Love è rimasto finora inedito in traduzione italiana non soltanto perché incompleto ma anche per una certa “diversità” rispetto ai racconti a cui i lettori di Katherine Mansfield sono abituati (quale sarà, mi sono chiesto licenziando questa traduzione, la reazione della nostra fedele lettrice?).
Sebbene appaia pressoché finita, tranne in pochi punti, è legittimo supporre che a questa storia sarebbe stata apportata più di una modifica. Al di là dei dubbi avanzati a caldo dall’autrice (“ho finito il racconto Brave Love ma nemmeno adesso so cosa pensarne”, si legge nel suo diario), una spia del fatto che ci si trova di fronte a un work in progress (rimasto tale, per altro, a causa della morte dell’autrice) è la “sintassi zoppicante” di Mitka, il protagonista maschile del racconto. L’abilità davvero straordinaria della Mansfield di dare conto della personalità di qualsiasi tipo di personaggio attraverso il suo modo di parlare è evidente anche nel caso di Mitka, alla cui stranezza comportamentale e immaturità emotiva corrisponde un uso imperfetto – da straniero, appunto – della lingua inglese (piuttosto evidenti nelle battute iniziali del racconto, queste imperfezioni, mantenute anche in traduzione, vanno però diminuendo con l’evolversi della storia, fino a sparire del tutto). È inoltre probabile che in sede di revisione l’autrice avrebbe riconsiderato, verosimilmente con l’intento di alleggerirla, la natura così impietosamente e incorreggibilmente malvagia di Valerie, la protagonista femminile – di cui anche Evershed è una vittima, come si arriva a capire nelle battute finali del racconto – nonché quella altrettanto meschina della sua complice-confidente, Mildred; e così pure la fine di Mitka, al quale il destino non riserva altro che illusioni, delusioni, infelicità e sconfitta.
Ma l’aspetto di Coraggioso amore che più spiazza è senza dubbio il costante raffronto tra esteriorità e interiorità, tra apparenza e realtà, tra bellezza e bruttezza. Si pensi, per esempio, alla descrizione di Wyndham Square al chiaro di luna e sotto un cielo “tempestato di grandi stelle” con cui si apre il racconto (“the sky was studded with stars and moonlight lay on the white houses and on the trees and the little lawns of the square”), a cui fa seguito, poche righe dopo, il riferimento all’interno dell’abitazione al n. 34, descritto come “viscere sudice” da cui emerge il cameriere tedesco allorché Mitka dà uno strattone al campanello (“and gave the bell a pull that sent the German waiter rushing up from the dirty bowels of the house”). Questo contrasto si riscontra anche nel chiaroscuro comportamentale dei personaggi che danno vita a questa storia: dietro all’affettuosa apertura e all’impeccabile compostezza della loro condotta covano infatti, in destabilizzante incubazione, i germi dell’insicurezza, dell’indifferenza, dell’egoismo e della grettezza.
In Coraggioso amore, dunque, la delicatezza della narrativa mansfieldiana – paragonata a quella di una “ceramica d’Oriente”, riprendendo la nota immagine coniata da Pietro Citati – è preludio a smarrimento e deterioramento: emotivo, mentale, fisico. La ragione di questa confusa (illogica?) e distruttiva spirale – che trova il suo correlativo oggettivo più esplicito nel secchio in cui a quel tempo venivano raccolte e trasportate le urine e le feci dei padroni di casa e di cui si occupava la servitù (“An African servant with a slop pail had met her at the bottom of the stairs, had struggled in front of her up the five flights, the stiking pail still in her hand”) – può forse essere legata al decorso irreversibile e impietoso della malattia che stava consumando la scrittrice. È inoltre probabile che nella sofferenza e nell’amore di Mitka riverberino i sentimenti (altrettanto ideali) di una giovane donna uscita troppo presto dal palcoscenico della vita, di cui aveva però fatto in tempo a capire i complessi e spesso crudeli meccanismi.
Katherine Mansfield, infatti, credette fermamente che ciò che si arriva ad accettare davvero nella vita è soggetto a mutamento e che di conseguenza la sofferenza deve diventare amore... e viceversa. Questa metamorfosi, per lei, è la logica misteriosa dell’esistenza umana: una verità commestibile e allo stesso tempo velenosa. Coraggioso amore può allora essere letto sia come conferma sia come smentita di questo suo convincimento.
In ogni caso, anche attraverso corrispondenze e conclusioni come quelle narrate in questo racconto – tonalità percepibili in altre storie coeve, raggruppate nel volume postumo Qualcosa di infantile ma di molto naturale (Something Childish but Very Natural, 1924) – emerge la voce di una delle scrittrici più innovative e più lette del ventesimo secolo: una penetrante e persuasiva tessitrice di trame, di incontri, di rapporti. A dispetto di una stesura incompleta e complicata da una calligrafia di difficilissima lettura (in alcuni punti addirittura indecifrabile), si possono infatti riscontrare ancora tutte le qualità narrative che spinsero un’autrice e commentatrice attenta e acuta come Rebecca West ad affermare che nella scrittura di Katherine Mansfield “la logica della poesia conquista la prosa”.
Marco Sonzogni