Dal singolare al plurale
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Canto I
lógos
Lógos, verbum, parola parlata, parolata, violentata, bocca aperta, labbro muto semovente, > movimento disperato nello spazio, bucato, sfracellato, stracciato, staccato dai gangli colanti del cervello. > Nuovo spazio spaziato, di là da questo già consumato, bisogno estremo e violento di spaccare questo guscio > imputridito ormai, come cento e mille anni fa, con parole volgari di lingue volgari, nudo in mezzo a questo universo folle plastificato, > per direzionarmi verso le distanze relative delle stelle, spazio-tempo-parola da lanciare fra le galassie, > sciogliere l’acido di questo nonsenso che copre e consuma ossa e midolla di lardo secco e marcio, marrone, > magari fosse merda, ma è niente. > Qualcuno ci ha provato, qualcuno, qui e altrove, altri mondi, altri spazi, altri idiomi: > ma il mondo è ancora e sempre più uguale, parliamo questa lingua pesante, tele neutra visione prosciugata, di niente. > È duro da scalfire lo scafo di questa nave transatlantica, che macina miglia sempre piu veloci, > non sa più della rotta di ieri, vuoi che riesca a farlo io? > Però chi non ci prova… prigioniero è! Cosa cerca di sensificare uno che scrive oggi, per esempio, un romanzo, > con tanto di trama, tranelli, personelli, crescendo e finale, colpevole preso e compreso? > E qualcuno ha il coraggio di leggere a scuola una poesia che lascia tutto come prima, > e ti inganna e induce a credere che la vita sia quella, e bella e così in salmì? > Alle fronde dei salici avevo appeso la mia cetra, e le corde vocali nella mia gola impastata. Ma? Ambrogio Fogar > ha forse esitato e paurato prima di salire e salpare rischiando di non tornare (poi qualcosa ci ha rimesso, lo so)? Posso ancora parlare come mio nonno?
> Di vacca in vacca, di valle in nuvola, di casa in colle, molle di albicocca e dura di cocco, incoerente: > questa è la mia parola, ti arriva di me qualcosa, o tu, qualcuno, che leggi lì fuori? Siamo connessi in quest’aria intasata di onde timtelecomvodafòne > nelle nostre orecchie ormai afone? Il solito idiota presuntuoso, penserai, > che vuol far l’originale sputando nell’orinale, perché non ha niente da dire o di meglio da fare? > O, semplicemente, uno che crede di farla a Pupo e a Galeazzi, leggendo pasolinipagliaranizanzottosanguinetitestorirosselli… > (fatti non foste a viver come drupi, diceva il trio…) > – ma, imbecille, non crederai davvero di fare il furbetto! – Cosa voglio? Perché farnetico? > Per scacciare il bla-bla che ha svestito ogni idioma voglio essere idiota con il mio idioletto sempre nelle mutande, > per riuscire a parlare almeno con me. >
Girano le lancette vorticano roteano quando noi facciam finta di niente e andiamo almareoinmontagna > a festeggiare un altro anno, capelli che imbiancano, intanto, s’impigliano nei denti del pettine, > e il cervello si riempie ancor più di passato e la pelle con lui, > come niente fosse continuiamo continuiamo a mangiare camminando sulla costa destra di un burrone, per strada senza direzione rimpinzando il nostro sacco di dolci > e gabbane. Cosi, furbacchioni, inganniamo il tempo, ma lui, galantuomo, tira dritto e pernacchia. > Sembra scemo chi guarda fuori dal finestrino adocchiando un sasso fosforescente, una carta stradale, > una mano che spiega o che strappa la tenda. > Perlomeno uno specchio, sputacchio che cola nel vetro mi dice che forse davvero esisto. Io: è già molto o qualcosa.