Sanguineti non amava le cerimonie, neppure i funerali credo amasse, insofferente com’era ai conformismi, ai rituali. Ma amava sentirsi amato, e credo stia bene qui, oggi. Come senz’altro gli sarà cara l’iniziativa dell’associazione Polimnia dal titolo “Genova città di poesia. Per il suo Edoardo”. È molto bella l’iniziativa che avete promosso, e spero che venga accolta da un’ampia partecipazione.
Amava sentirsi amato dai giovani, in primo luogo, dagli studenti. Io vengo dall’Ateneo di Bologna, che l’ha avuto ospite solo pochi giorni fa. Vorrei potervi leggere le e-mail che sto ricevendo da chi ha avuto la fortuna di essere a lezione la mattina di mercoledì 5 maggio. Sono bastati pochi minuti, e tutti erano conquistati. Studenti DAMS di varie parti d’Italia, pochissimi provenienti da licei, molti da studi inferiori. Quelli che l’Università di oggi vorrebbe emarginare e che nulla di lui conoscevano fino a poco tempo fa. Alcuni di loro, in questi giorni, incontrandomi nei corridoi dell’Università, si sono fermati ad abbracciarmi in silenzio.
Provo a interpretare: si erano trovati davanti il professore prestigioso, certo, ma non basta, non spiega. Forse li ha conquistati quella sua parola puntuta, precisa, arguta, beffarda, esorbitante, dirompente, che travalicava come niente i confini del perbenismo, anche di quello stilistico, intendo. Forse – me l’hanno scritto – li ha conquistati il suo stile, la sua lucida intelligenza critica e insieme la capacità di scompaginare le carte, capovolgere il sublime, da acrobata della parola, capace di spaziare tra registri stilistici e lessicali, contaminarli, ribaltare il tragico in comico. Ma non basta ancora.
Credo li abbia conquistati soprattutto l’umanità, la disponibilità, di quell’anziano signore giovanissimo, dal volto nodoso e magro, dallo sguardo penetrante e giocoso, dal sorriso caustico e ironico, elegante come sempre pure con i piedi fasciati. Sapeva di andare verso la morte e proprio per questo, a sfida, aveva deciso di darsi sino in fondo, senza risparmio. Lui che portava avanti tutte assieme, e le esponeva, le sue contraddizioni apparenti: filologo rigorosissimo e sabotatore di regole e tradizioni, materialista storico e anarchico eversivo, satrapo patafisico e fool shakespeariano, idoeologo e poeta.
Sanguineti amava ripetere, lui freudiano, anzi groddeckiano tenace, che tanti “ii” convivevano in lui, costituendo la sua salvezza. Era certo così. Ma quegli “ii”, tutti gli “ii”, dell’artista, del letterato, del poeta, del narratore, del traduttore, del drammaturgo, del lessicologo, del saggista, convergevano nell’unico io caparbiamente fermo nella difesa di principi irrinunciabili. Quell’io sapeva farsi coscienza critica del presente e denunciare con una durezza estrema, con una indignazione spinta sino alla ferocia, l’aggressione alla dignità umana. Rispettare la dignità voleva dire per lui in primo luogo rapportarsi agli altri, rispettare i diritti costituzionali dell’uomo-cittadino, diritti sempre più erosi, vilipesi (l’aveva annotata e chiosata, qualche anno fa, la Costituzione italiana); voleva dire difendere la verità della storia, le conquiste collettive, dai revisionismi ipocriti e dagli attacchi indecenti di chi arrivava a equiparare il confino imposto ai militanti antifascisti a un dilettevole luogo di villeggiatura. L’avremo sempre negli occhi la maschera tragica che aveva bucato il video, nella serata del premio Campiello di qualche anno fa, con la forza dell’invettiva dantesca, con la passione di chi avvertiva oltraggiata, insieme con la memoria storica, la dignità, appunto, dell’uomo.
Chi si espone a scelte radicali ne paga le conseguenze, e Sanguineti ne ha pagate molte, dolorosamente, nel corso della sua vita. Un politico prestato alla letteratura, amava definirsi, intendendo la politica come spirito di servizio, innanzitutto. Quello spirito aveva accompagnato il gramsciano per scelta e formazione, il chierico organico, ad accettare i ruoli di consigliere comunale a Genova dal 1976 al 1981, e poi di deputato tra il 1979 e il 1983, eletto come indipendente nelle liste del P.C.I.
La politica era sostanza profonda, inseparabile dalla sua scrittura, perché la scrittura era per lui prassi, scelta di campo: “noi che riceviamo la qualità dai tempi” era la citazione foscoliana che aveva siglato, nel ’56, il suo Laborintus, restando poi sempre cifra caratterizzante, attraverso le diverse fasi della sua scrittura, dalla Palus Putredinis alla “poetica del piccolo fatto vero”, praticata negli anni Settanta da Postkarten in poi.
La sto prendendo alla larga, Edoardo. Faccio quel che posso. Di fronte a te, intellettuale di caratura rarissima, alla tua intelligenza lucidamente ironica e iconoclasta, alla tua vitalità sconfinata, che trascinava chi veniva in contatto con te, e alla tua sconfinata vena tragica, così assoluta e irrimediabile, si cerca sempre un po’ di puntellarsi. Hai attraversato il Novecento da protagonista di statura internazionale, tra i pochi, tra i pochissimi del nostro tempo, e al Novecento hai dedicato un Ritratto che resterà tra i tuoi lasciti grandi (ancora oggi, a Bologna, è vivo il ricordo delle serate in Sala Borsa che ne hanno visto la messa in opera sui quattro temi – parole chiave – che avevi scelto per rappresentare quel secolo che giudicavi non breve, ma interminabile: la psicoanalisi, il montaggio, le avanguardie, la lotta di classe, visualizzata, quest’ultima, dai tuoi due fari ispiratori, Marx e Benjamin).
Hai affascinato musicisti come Luciano Berio (e oggi è qui, con Talia Berio, Andrea Liberovici), registi come Luca Ronconi, artisti come Enrico Baj, e molti altri, per la straordinaria qualità della tua parola, fisica, corporea, gestuale, musicale; una parola capace di densità esasperata e di estrema limpidezza, nella poesia come nella prosa, o nella tua magistrale attività di traduttore dai classici greci e latini, e da Shakespeare, Brecht e Goethe. Ho provato a rileggerti in questi giorni così difficili, e l’emozione è stata grande, perché testi anche notissimi acquistavano valenze nuove, una compostezza e compattezza inattesa. Occorrerà rileggerli tutti ora che hai fatto di due punti un punto. Parlando della morte di Roland Barthes, Foucault aveva detto: “Cette oeuvre est seule désormais. Elle parlera encore; d’autres la feront parler et parleront sur elle. Alors, permettez-moi, cet après-midi, de faire jour à la seule amitié. L’amitié qui, avec la mort qu’elle déteste, devrait avoir au moins cette ressemblance de n’être pas bavarde” (“Questa opera è sola ormai. Essa parlerà ancora; altri la faranno parlare e parleranno su di lei. Allora permettetemi, in questo pomeriggio, di fare luce sulla sola amicizia. L’amicizia che, con la morte che essa detesta, dovrebbe avere almeno questa somiglianza, di non essere chiacchierona”).
Sospendo dunque le parole e lascio a te rivolgere a noi il tuo saluto con due tue poesie.
La prima la dedico a Luciana. E’ un omaggio alla vita, di cui la morte fa parte e la completa, quasi nel lucreziano ordine delle cose, della materia che finisce e rinasce. Lo sa bene il poeta che a Lucrezio ha dedicato alcune tra le sue traduzioni grandi. E’ una materialistica, tenerissima poesia, ironica e commossa, piena di umana partecipazione all’umano. È la
Ballata delle donne.
Ballata delle donne
quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia:
quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace:
quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire:
perché la donna non è cielo, è terra,
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente:
femmina penso, se penso l’umano:
la mia compagna, ti prendo per mano:
La seconda me l’ha chiesta Giulia. Era presente quando suo padre la lesse in Sala Borsa a conclusione del Ritratto del Novecento, quasi come inventario del secolo espresso attraverso la verità linguistica, effettuale, della poesia. È la poesia 13 di Cataletto.
13.
nella mia vita ho già visto le giacche, i coleotteri, un inferno stravolto da un Doré,
il colera, i colori, il mare, i marmi: e una piazza di Oslo, e il Grand Hôtel
des Palmes, le buste, i busti:
ho già visto il settemmezzo, gli anagrammi, gli etto-
grammi, i panettoni, i corsari, i casini, i monumenti a Mazzini, i pulcini, i bambini,
Ridolini:
ho già visto i fucilati del 3 maggio (ma riprodotti appena in bianco
e nero), i torturati di giugno, i massacrati di settembre, gli impiccati di marzo,
di dicembre: e il sesso di mia madre e di mio padre: e il vuoto, e il vero, e il verme
inerme, e le terme:
ho già visto il neutrino, il neutrone, con il fotone, con l’elettrone
(in rappresentazione grafica, schematica): con il pentamerone, con l’esamerone: e il sole,
e il sale, e il cancro, e Patty Pravo: e Venere, e la cenere; con il mascarpone (o
mascherpone), con il mascherone, con il mezzocannone: e il mascarpio (lat.), a *manus
carpere:
ma adesso che ti ho visto, vita mia, spegnini gli occhi con due dita, e basta:
Riposa in pace, Edoardo. Ti salutiamo qui con gli ultimi versi del tuo piccolo threnos che avevi dedicato a Luciano Berio:
(ma lo sapevi, poi, che i mortali, agli immortali, ci sta scritto
da sempre, non è lecito (non lo sarebbe, voglio dire, comunque), piangerli, neanche, mai):
(ma se è per questo, poi, però, ci pensiamo qui noi, adesso, per fortuna, per forza):
Questo è il testo che Niva Lorenzini ha letto ai funerali di Edardo Sanguineti, a Genova, il 22 maggio 2010.