Fili

Fili

copertina
anno
2008
Collana
Categoria
pagine
136
isbn
978-88-6266-040-2
14,25 €
Titolo
Fili
Prezzo
15,00 €
ISBN
978-88-6266-040-2
Fili come testi esili, minimali, in ordine alfabetico. Fili di pensiero e di vita che procedono autonomi ma anche si intrecciano e scorrono assieme in un unico macrotesto.
Il mondo, in riferimento alla scrittura, talvolta è solo un catalogo, un dizionario, un repertorio.
INCIPIT

Ábaton
 

Ábaton, parola greca che significa inaccessibile ed è usata in italiano per indicare il recesso sotterraneo di un tempio. «Gli ábaton ctoni», disse Saro all’alba, «sono spalancati, basta trovarli». Gea non gli badò; cantava un motivo che parlava della luce sorgente e della prima stella. Diana si domandò se i mondi sotterranei fossero nell’oscurità. Attraccarono a Cuma, da dove avevano intenzione di partire per un viaggio di esplorazione degli inferi.
Sulla spiaggia esaminarono cortine d’aria immobile. Entrarono all’interno di una grotta, calpestando una passerella di metallo, appoggiata sul vuoto tra due argini di roccia. Gea notò l’eco del mare, ingigantita nella cavità della grotta; il metallo vibrò con tonfi amplificati dalla volta. Concertarono di orientarsi con un occhio interiore. Calata la notte, scesero sottoterra dalle rive del lago di Averno, situato a est della spiaggia alla quale erano approdati all’alba.
Nelle cavità ctonie, un nocchiero li traghettò da una sponda all’altra di un fiume. Più oltre, le stelle degli abissi sfumavano ai confini di una palude. Tirava un vento né caldo né freddo. Più avanti vorticava pulviscolo indolore. Erano ormai ben dentro gli inferi: una forza magnetica li obbligò a proseguire.
Su uno slargo, ombre incapsulate da densa caliggine sciamavano come api. Se avessero toccato le ombre, ne avrebbero constatato l’incorporeità. Se le avessero interrogate avrebbero scoperto il loro timore che venisse dimenticata per sempre la vita.
Ombre avvolte a rami alti parlottavano come un’arnia ronzante, raccontandosi miti ai bordi di un roveto. Il luogo terminava su una pianura argillosa bordata da un baratro. Risalirono.
Trascorsi sei mesi, rientrarono negli inferi su macchine del tempo uguali a automobili, da un accesso documentato dal seguente passo di Album dei sogni di Milosz: “Ci mostrò una strada che conduceva in basso. Non ci perderemo perché ci sono molte luci, scendo di corsa per la scala a chiocciola nell’infinito.”
Passeggeri Gea e Saro della prima macchina, deviarono al bivio di Manarola sulla litoranea delle Cinqueterre, imboccando il braccio ascendente in direzione Groppo. Scartarono, più a monte, la strada asfaltata che si immette sul bivio Vernazza-Corniglia e scelsero la strada sterrata in direzione di Levanto. La seconda macchina, con Diana a bordo, prese la costiera R591 da Toormore in direzione di Crookhaven, nella contea di West Cork in Irlanda. Si erano dati appuntamento a due curve, simili malgrado la distanza che le separava, con parapetti in pietra e spiaggia. Per riassociarsi dovevano pronunciare parole evocative a un’ora fissata. Si incontrarono, recitate le formule, a una curva, tra due fili spinati che correvano tra pali. Sul più basso dei fili, il vento staccava frange di stoppie. «Perlustriamo», incitò Saro.
Scesero. Diana fotografò una vastità livida di nuvole, mare, isole. La luce disegnava riflessi presso i crinali delle colline non alte ma aspre. A sud, un fiordo di cui non si vedeva il termine. Si diressero alla luce, la raggiunsero, il gioco di riflessi scomparve. Oltrepassarono un cerchio di pietre aguzze, sorpresi che la volontà mancasse, né soffrivano.
Su una delle isole, un faro spento: ci arrivarono guadando. In lontananza, si avvicinava una figura vestita di un’incerata gialla, con un secchio in mano, il volto solcato da rughe. «Deve guidarci», indovinò Gea.
Sulla spiaggia seguirono la guida taciturna finché trasse una manciata di asfodeli dal secchio, li sparse su una botola, attese che ricadessero, si allontanò senza voltarsi. Trovarono, sotto la botola, la scala a chiocciola di Milosz. Si tenevano per mano. Saro, il primo della fila, inciampò. Gea e Diana inciamparono dietro di lui. Nel ruzzolare tastavano lava. In una cripta, al fondo, li accolsero ombre di persone amate. Percepirono, di altre ombre, odio. Stavano per precipitare. Si ritrovarono dentro le due macchine, su due strade. Dietro la macchina di Diana a Crookhaven, strombazzava un furgone del latte per chiedere il passo. La macchina di Gea e Saro era sboccata nel mezzo di una coda, a Levanto, tra impennate di freni e clacson.
Tornati al comune livello di realtà, sviluppata la pellicola, il negativo risultò intonso. Una sera, a casa di Gea, constatarono che negli inferi non avevano trovato i tormenti descritti da poeti, maghi, scrittori. I territori che avevano esplorato erano, come dire?, un’assenza. Rimasero assorti nella penombra.

I Fili secondo Piera Mattei 

Roberto Bertoni dispone in Fili alcune dozzine di racconti secondo un ordine alfabetico. Fili che cercano di comporsi in una tela? Forse, sì. Forse non ci provano neppure, la tela è incomponibile. Del resto fili e labirinti vantano parentele strettissime. Proviamo a pensare, povero Tèseo, se Arianna gli avesse fornito una matassa di fili, anziché un filo solo, come quello del rosso gomitolo con cui gioca – e intanto certamente lo imbroglia – il gatto ignaro di logica e di problemi d'impegno in Bipolarità.
L'ordine alfabetico suppone che chi usa l'elenco sappia che nome va a cercare. Ma il lettore qui non lo sa. A posteriori collega il racconto a quel determinato nome. Dovrà costruire un suo elenco personale, quello che chiamerei il suo stradario, per tracciare un cammino attraverso tematiche affini, piante stradali che "partano da" e, attraverso sotterranei labirinti, "giungano a" mete note, e separate (Abaton).
Diversamente dai pezzi di un puzzle, i fili sono duttili non si uniscono secondo un incastro necessario. Ogni lettore può comporre la tela secondo un suo disegno. Quindi se questo libro richiede molta attenzione per essere inteso nelle sue molteplici sfumature, la composizione che il lettore ne farà sarà probabilmente un work in progress, aperto a soluzioni diverse, riletture, come credo questo libro sia anche per il suo autore. Che comunque di molteplici riscritture ci parla, in una nota dalla quale sappiamo anche che questi racconti coprono l'arco di circa vent'anni. Questo davvero, se lui non l'avesse scritto, non potevamo supporlo, tanto omogeneo nella varietà dei temi è lo stile sempre netto, elegante, discreto.
 
Niente è casuale in questo libro e in questa sorvegliatissima scrittura. Persino lo spaesamento del lettore riflette quello che lo scrittore vuole raccontare del mondo e in particolare del suo mondo. Un mondo di nomi e cognomi d'indirizzi e etichette. Tutto ben sistemato, perché intanto tutto non ha senso. Quindi ogni cosa è raccontata come seguendo una logica, con il tono è di chi si muove con cognizione di causa. Una logica gratuita. Ossimoro che ricorda certo Borges, Calvino, ma soprattutto Beckett, anche se – non credo ci sia sfuggito – mai si cita questo nome. Eppure non sarà solo per la suggestione di sapere che Roberto Bertoni vive ormai da decenni a Dublino, non si tratta solo del clima d'Irlanda che qui si respira. Non si può non udire l'eco, forse pienamente assimilata, di Beckett leggendo questa intenzione: vorrebbe ricordare a monosillabi, con brevi parole secche, senza mai aggiungere niente d'inutile. Dove il capolavoro è quel "ricordare", non "parlare", come sarebbe ovvio, a monosillabi. Così scrive in Girazione, racconto breve dove sembra di leggere la sintesi di una storia personale con inversione di ruoli "ingenuamente" esposta. Come per i nomi propri che si diverte a inventare, scritti all'incontrario.
Certo i nomi, sostantivi ma soprattutto nomi propri di persone e luoghi, così precisi, il meno che possono dire del mondo è che è gratuito o assurdo, ovvero – se vogliamo essere ottimisti e impegnarci a non gettare ancora la spugna – di difficile, non impossibile, decifrazione.
 
Come dire, se tutto ha un nome sarà possibile ordinare il tutto, il sopra e il sotto, a Lerici, a Dublino, nel lontano Oriente, secondo un ordine alfabetico?
Inventare nomi ci aiuta a semplificare o a complicare l'esperienza?
Vocabolari e manuali sono, forse più che la società dei viventi, fonte d'ispirazione?
Di fatto la grazia annuvolata che respira questo libro rimanda a una disciplina interpretativa dei segnali importanti e di quelli minimi. Sconsolatamente tuttavia i primi si appiattiscono sui secondi. Quindi, per cercare un'orientamento, costruiamo il nostro personale stradario, il nostro particolare vocabolario bertoniano, che prevede l' elenco di pochi nomi che la vecchia grammatica definisce comuni, che corrispondono a categorie grammaticali, topografiche, psicologiche.
 
I-I nomi propri: hanno radici non sempre identificabili, dotte sempre, radici greche, di lingue romanze, dalla tradizione celtica o anche indiana. Se si prende la prima pagina di Dondolìo, ma poi anche le seguenti – è questo infatti uno dei racconti di media lunghezza – si vedranno brulicare di maiuscole. Ci sono nomi propri che sono aggettivi o nomi astratti in francese (Ritorsione), nomi che sembrano esotici per la sovrapposizione di simboli strani ma che se letti all'incontrario diventano leggibili nella stessa lingua in cui è scritto il libro (Terra, Giravolte), nomi e cognomi di persone note come il fisico Hofstadter, guru dell'intelligenza artificiale, Bram Stoker, dublinese noto come autore di Dracula. Sicuramente sono scritti e ripetuti, con un'insistenza che sembra volere rassicurarsi del loro concreto esistere e agire, anche nomi e cognomi di amici o comunque nomi di alta valenza affettiva personale, che tuttavia non è mai evidente, è sempre controllata, filtrata e spolverata di humour.
I nomi, alla maniera di Calvino di Ti con zero, corrispondono anche a particelle, forze: i manuali scientifici ne forniscono in certa misura, soprattutto la fisica delle particelle, fononi, elettroni, vettore ma anche nomi di particelle inventate, per quanto ne può affermare la mia competenza (Ubi, Vadere). Del resto Calvino di quel libro e delle Cosmicomiche compare anche nella dimensione extraumana del tempo combinata a paradossi delle antiche dottrine greche, in Calvino si tratta di Zenone, qui nel racconto Zetetici, di Eraclito. Nomi come Tie Kie che, ci spiega l'autore in nota, significa "lì dove", sono persino tratti dall'esperanto (Giravolte). Anche questo non sarà senza significato rispetto a una curiosità linguistica onnivora e a un progetto esteso – e ironicamente utopistico – di comunicazione e di realizzazione politica.
I manuali, miniere di nomi, scatenano la fantasia. Per Zetetici ho citato Calvino ma gli accosterei anche Borges, Pessoa per l'eliminazione della sequenza storica per cui il passato è qui, nel presente, insieme a frasi scritte nei libri antichi, elegantissimo divertissement che intreccia i recenti divieti di fumo con la trasformazione in fumo di alcuni seguaci delle teorie di Eraclito. Ma c'è forse un lontano ricordo anche del palazzeschiano Perelà?
 
II-L'amore è nuvola che avvolge, nebbia dalla quale si scorgono a malapena i contorni del volto amato. Nebbia s'intitola uno di questi racconti ma, sorprendentemente, ne è protagonista un esagitato campione dell'azione e della buona mira, James Bond, perché la chiave è tutta nel sottotitolo: parole perse nella nebbia trovarono iperboli.
Tornando agli incontri d'amore, la materia sembra essere un vero chiodo fisso ma allo stesso tempo difficilmente impiantabile per i protagonisti di queste storie. L'amore reclama sicurezza, ma questi personaggi, pur non potendo fare a meno di rispondere a richiami, non riescono ad avere certezze. La realtà stessa si perde in una mise en abime come nel racconto Narcosi, è caratterizzata da rinuncia priva di pothos in Autobiografia. Del resto se una ragazza dal sari azzurro ti regala una perla nera, non è a te che vuole fare un dono, il regalo vuole farlo a se stessa. Vieni a sapere, dopo esserti a lungo interrogato su quel gesto, che sta provando a liberarsi da un lutto che le impedisce di vivere (Chiaroscuro II).
In questo libro scritto in una lingua limpida, niente affatto gergale, dalla sintassi perfetta, acquistano un senso direi psicologico e persino metafisico, i monosillabi boh, bah (Rientro, Confine). Del resto Boh, era già il titolo di una raccolta moraviana di racconti sul tema dell'amore, dell'eros, delle donne. Qui, boh, bah, sono monosillabici giudizi sui movimenti, di donne verso i protagonisti e viceversa, sui moventi, sugli approcci, sono l'immediata reazione del protagonista quando viene interpellato da una donna che forse gli piace, ma insieme ispira diffidenza, non sa bene cosa lei voglia da lui e lui stesso non sa cosa vuole e se la vuole.
 
III-L'ironia. Un sorriso intelligente e senza speranza circola in tutti questi racconti, ma talvolta nomi di uso tecnico o raro se ne fanno tramite. In Nepente, l'acconciatura dei capelli di chi parla allo spettatore è tratto saliente del messaggio che parte dalla scatola televisiva, di scarso interesse per lo spettatore in questione, ormai calvo. Il sorriso sulla natura soporifera della televisione s'evidenzia in quel titolo, nome farmaceutico o raro, che sta per blando sonnifero.
Parlare, sconsolatamente di politica davanti ad alcune bottiglie di vino è quanto fanno in un'osteria due vecchi amici in Quiddità. Dal modo con cui parlano e da quanto dicono senza dire nulla, con riuscita perfetta, campeggia l'ironia.
Piccolo capolavoro di sorriso sull'ipocrisia cosiddetta religiosa è Hangar, con i ripari aerei dipinti di celeste, per rispettare la volontà della Vergine, dopo che, secondo il giudizio delle autorità e dei credenti, ha compiuto la grazia di far crollare i muri a Oriente.
 
 
IV-La politica. Dagli esempi appena citati risulta chenon solo i tentativi di trovare l'amore ma anche la politica sono strettamente connessi all'ironia. In Abbiccì tre politici parlano solo con parole che cominciano che le iniziali del loro nome, appunto A, B, C. Un modo elegante e non rabbioso per sottolineare la vacuità e il narcisismo di quanti gestiscono la cosa pubblica.
Bipolarità parla di enunciati di destra che sono invisi al protagonista, anche se poi lo vediamo dirigere gli occhi su un punto indefinito oltre la finestra aperta sulla parete alla sua sinistra, dalla quale non vide altro che cielo vuoto.
Altro riferimento fantastico alla politica è in Piante, dove nel Movimento di liberazione delle piante, l'ala non violenta si contrappone e mette in guardia l'uomo dall'ala violenta che vorrebbe l'eliminazione della specie umana. Qui il riferimento a Lewis Carrol è evidente anche nel nome della protagonista, Alice, e tutto può essere letto sia in chiave ecologista sia più generalmente come scherzo ironico-tragico sul ricorso alla violenza o il ricatto ideologico in politica.
 
V-I Luoghi: prevale un paesaggio irlandese: l'acqua per via della giornata d'un grigio piatto, di riflessi ne mandava pochi (Dondolìo)
C'è spesso la costa ligure, Lerici in particolare, luogo dove si consuma una cassata allo sciroppo d'amarena tra scambi laconici di frasi insulse e pessimiste tra vecchi amici, in Endofasi.
Altri luoghi da cui giungono telefonate e richiami sono gli aeroporti in Rientro e in altri racconti.
Luoghi sono genericamente il mare, il cielo, la terra, sopra e sotto la sua superficie, il Leviatano, come ristretto universo.
 
VI- I Poeti: i poeti e gli scrittori di riferimento sono molti. Risaltano gli autori dei poemi cavallereschi, Ariosto (Illusioni), Tasso (Zeolite), poi Montale, Leopardi (Ginestra), e, meno platealmente esposti, Virgilio, Bonaviri, Vittorini, Govoni, la poetessa irlandese Eithne Strong i cui versi sulla ginestra sono posti in relazione con quelli di Leopardi.
Rispetto a Montale, un racconto breve che mi piace molto è Oltre, in cui il pensiero del protagonista transita dalla considerazione di un pezzo di vetro raccolto nel fango a due versi del poeta ligure "Brina sui vetri; uniti / sempre e sempre in disparte" in cui l' elemento "apparentemente" comune tra la poesia e la situazione che il protagonista sta vivendo è espressa nella parola vetro. Si tratta, del puro suono della parola, tuttavia. Quello che il protagonista raccoglie, tagliandosi, è un materiale informe mentre la poesia di Montale indica presumibilmente ben rifiniti vetri di una finestra. Concordanza discorde da cui esala mesta poesia.
 
Vorrei qui concludere, non perché mi sembri di aver esaurito le pieghe di senso di questo libro, questo sarebbe molto difficile, i fili tornerebbero molte volte a ingarbugliarsi. Penso invece di aver dato un sintetico saggio della molteplicità di contenuti e riflessioni, di uno stile che varia tra comico ironico melanconico e fantastico. A questo ultimo registro mi accorgo che nel mio personale stradario ho concesso minore spazio, non rendendo forse la frequenza con cui appare. Ma, si sa, ogni interpretazione, è in parte riscrittura: qui dilata e sottolinea con enfasi, lì contrae e quasi cancella.
 
Un dizionario di voci, di Marco Ercolani
 
Roberto Bertoni, critico e saggista, traduttore di significativi poeti irlandesi contemporanei, ideatore della rivista web “Carte allineate”, scrive – sarebbe più opportuno dire “compone” - un libro singolare, Fili ( Manni, 2008) assemblando dei microtesti così come si compila un dizionario alfabetico di voci diverse, da “Abaton” a “Zonazione”. Ne viene fuori un manuale molto personale di “scrittura del fantastico”. L’impressione più evidente è leggere dei microracconti condensati in poche righe, con temi che svariano dallo scherzo linguistico alla pseudobiografia, dal commento poetico alla narrazione apocrifa, dalla commedia grottesca all’apologo, dalla sentenza filosofica al capitolo fantascientico. “Il non finito non è necessariamente incompleto” scrive Bertoni. La sua narrativa, ellittica e indefinibile, lo conferma. Il lettore si trova di fronte a degli scorci narrativi colti come lampi isolati, non come accenni a narrazioni ulteriori. Attraggono l’autore nomi esotici o ludici come Thelxepéia, Haik, Aishé, Idrobàtes, Arret; lo interessano le Scacchiere Cosmiche, i laboratori di Artisti Universali, le utopie politiche dopo la Seconda Guerra dei Mondi, i paesi dai nomi improbabili come Fraclifroch. L’apologo borgesiano, il frammento di science fiction, la citazione letteraria, sono evocati da uno stile neutro, che non vuole persuadere o attrarre ma elencare, nel sottotono dell’understatement, situazioni inverosimili, stravaganti, enigmatiche, come accade in certi testi dell’eccentrico e isolato artista-scrittore Henri Michaux o in certa narrativa sudamericana del secolo scorso. L’ombra delle Storie di Cronopio e fama di Julio Cortàzar è visibile dietro a questo libro, come  certe invenzioni jazz dell’ultimo Miles Davis, sospese in un clima freddo, atonale. Nel racconto Minimalismo l’io narrante, incerto se aderire al “nulla semantico”, agli “avvaloramenti del nulla” di cui gli parla per lettera il critico Diego Maneri, comincia a mettere in dubbio il destino della sua scrittura. Incerto se rispondere a Maneri o se distruggere la sua risposta, si trova a camminare per una strada, perdendo i suoi fogli nelle pozzanghere, perdendo parzialmente se stesso. In un altro racconto più breve, Istantanee, scrive: “Cambiamento epocale del clima: dati allarmanti, poli sgelati. L’ultima istantanea che scatteremo sarà l’onda oceanica che ci travolge. Gli ottimisti sostengono che ci sarà un genere postumano”. I due racconti sono emblematici della spiccata malinconia, cosmica e individuale, in cui queste microstorie galleggiano – malinconia appena temperata da un’amarissima, intellettuale ironia. In fondo, commenta Bertoni, siamo “damasco di strade pericolanti”. L’autore si mostra disincantato nel reggere le trame delle sue storie, mai coinvolto da eccessi emotivi, e filtra la narrazione sotto il velo di citazioni, rimandi, allusioni, complicità letterarie, rendendo così le sue storie simili ai “fili” di una rete tessuta da ragnatele sospese nel nulla.
Un libro, Fili, da consigliare a un lettore non disattento, insoddisfatto dei ritmi prevedibili della prosa contemporanea.
 
 
 
Fortuna Della Porta, 11 aprile 2009
La domanda di fondo del libro potrebbe essere la medesima che si posero i presocratici, all’esordio del pensiero filosofico, a cominciare dal VII-VI secolo a.c. o anche prima, quando ci si interrogò per la prima volta sul senso del mondo e della vita su questa terra, col suo destino nella morte ed eventualmente oltre.
Correva un bisogno di Assoluto e le risposte furono congrue.
E tuttavia, Bertoni più che sottendere un quesito, del tipo qual è la sostanza di tutte le cose?, propone una resa e cioè l’impossibilità di leggere l’accadere quanto di descriverlo e ciò non solo implica l’abdicazione della ragione ma anche dello stesso codice linguistico, che non può dare conto di quello che non c’è.
I territori che avevano esplorato, erano, come dire?, un’assenza. (pag. 7)
Lontano da ogni risposta rassicurante o dinamica, per esempio in senso democriteo, all’autore sembra quindi preclusa ogni possibilità d’indagine sia riguardo alla cosa oggettiva, la res extensa, sia rispetto all’intersoggettività. Non è incapace la mente o la parola di accedere alla teoria cosmologica, perché nell’universo una teoria generale manca del tutto.
Il mondo, in senso lato, è dunque indecifrabile e anche le tenui gabbie semantiche, che l’autore dispone in un valoroso tentativo di recupero di senso, disattendono in pieno il compito della chiarificazione. Lo sforzo di catalogazione dell’esistente, compiuto attraverso la parola, produce un messaggio criptico, se non fosse che il vero messaggio è proprio quello dell’incomprensione.
Attraverso la sua scrittura rarefatta, che Bertoni stesso confessa limata e rivisitata fino a lasciare il necessario, egli non giunge che all’elenco in ordine alfabetico di parziali spicchi di mondo, non legati da un filo conduttore, da una necessità: quasi un brancolare nel buio in un nichilismo che non include una scappatoia. Ma finiamo, com’è d’obbligo in questi casi, in altra forma di assolutizzazione, che rigettata dalla porta, rientra dalla finestra. Alla contraddizione è difficile sottrarsi.
 
Ogni scrittura, pensò, era un messaggio lanciato nel vuoto. (pag.59)
 
La scrittura, come sostenevano i sofisti a proposito delle argomentazioni verbali, pecca di ambiguità o di bipolarità, come scrive Bertoni: ragionò che con una grammatica impeccabile si sarebbe potuto dire che la guerra in corso in una zona del globo, era giusta, o al contrario scegliere l’opposta posizione, da lui condivisa senza incertezze…(pag. 15)
 
In più, non gli basta neppure sciorinare un formale bagaglio di conoscenze per scalare l’arcano e, dunque, pur chiamando dalla sua parte una forma eclettica di competenze, soprattutto di valore umanistico in cui trovano spazio poeti e filosofi, non migliora per lui la probabilità di attribuire una misura a quanto ci circonda.
Non si vuole ingenerare l’equivoco di un sovraccarico di richiami e citazioni, che, figurano in bella mostra nella nota finale, perché uno dei meriti del libro è la pulizia stilistica, esplicata, pur non dissimulando raffinatezza culturale e intellettuale, in frasi brevi, nette, dove la posa in opera delle parole è frutto di un lavoro di spoliazione dei concetti e delle proposizioni.
 
La maschera enigmatica, dietro cui si occulta –ma, come si diceva, potrebbe mancare del tutto- l’ordine dell’orbe terraqueo, è sottolineata dai continui riferimenti al mondo ctonio, dall’Averno virgiliano ai thólos, che serrano tesori, polvere, echi.
L’opera comincia proprio con questa affermazione, che somiglia a una dichiarazione d’intenti: Ábaton, parola greca che significa inaccessibile.
 
Un’altra chiave di lettura del libro potrebbe essere quella di considerare l’opera come una grande metafora del degrado dei tempi, anzi della prossima fine dei tempi, rispetto ai grandi problemi ecologici, agli armamenti, alla democrazia partecipata, alle carestie e malattie del terzo mondo, problemi che neanche un alto livello di conoscenze scientifiche e il benessere economico, come mai nella storia dell’uomo, riescono a sradicare.
La globalizzazione che in qualcuno ha ingenerato l’illusione di una nuova età dell’oro a livello mondiale, ha procurato solo maggiore introito per le economie capitaliste, mentre il dissesto dell’ecosistema potrebbe avviare la catastrofe a seguito dei cambiamenti climatici, uguagliando nel pericolo gli apparati nucleari delle potenze, tuttora in grado di distruggere.
In questo senso, Bertoni indicherebbe l’irrazionalità della creatura, che cammina sull’orlo del baratro senza decidere a proteggersi e pertanto si perderà.
 
E non è detto che non siano valide entrambe le accezioni.