Questo romanzo, strutturato sul tema del sosia, narra in contemporanea la vita di un uomo senza qualità dei nostri giorni e quella di un grande feudatario siciliano del XIV secolo.
Fatti e misfatti accomunano, assimilano e alla fine identificano i due personaggi. E il lettore, fra il reale e l’onirico, è coinvolto e trascinato in un crescendo di fatti in cui, alla fine, protagonista è il fuoco che distrugge e purifica.
Tommaso Alibrandi è nato a Civitavecchia. Da sempre vive ed opera a Roma. Magistrato, Consigliere di Stato, docente di Diritto amministrativo alla LUISS, ha al suo attivo molti volumi di saggistica specialistica. Incoraggiato alla scrittura dagli apprezzamenti di Bobi Bazlen, ha pubblicato un solo romanzo,
Casa in vendita, con Feltrinelli, nel 1983.
INCIPIT
Giochi di fuoco al paese di sua madre si chiamavano le luminarie che s’usava fare per la festa del santo protettore. Adesso con ogni probabilità la tradizione sarà andata perduta. Ci vuole gente povera per godere di piaceri semplici, come quello di lanciare contro il cielo blu notte una cascata di coriandoli multicolori tra i botti che esplodevano nella spianata sotto il Castello; oppure quello di riunirsi, amici e parenti, nelle caldissime sere d’estate, sull’aia di qualche casa di campagna, a discorrere e a consumare un (o magari più di un) bicchiere di vino e i biscotti fatti in casa dalle suore di clausura. Erano quei biscotti non soltanto buoni ma anche divertenti, perché, essendo quasi cavi all’interno, potevano fungere – una volta tagliatene le punte – come cannucce per aspirare il caffellatte mattutino: ciò che per i bambini rappresentava un gran bel gioco. Chi voleva di quei biscotti doveva bussare alla porta del convento: allora si apriva uno sportellino nel quale andava depositato il denaro necessario, una ruota girevole in pietra si metteva in movimento, portando all’interno il denaro ed all’esterno i biscotti richiesti. Così il pudore delle sante donne era scrupolosamente tutelato. Ma il piacere più raffinato era certamente quello di portare la serenata. La serenata non si portava solo alla donna amata ma anche ad un parente benvoluto o, più genericamente, a persona alla quale si volesse fare omaggio. E così, quando una loro zia, dopo molti anni di lontananza, tornò per una vacanza estiva in paese, un suo cugino (a nome Gino), abbastanza giovane per non mettere a repentaglio la reputazione di una vedova, venne a portarle la serenata, con l’aiuto di alcuni amici. Essi alloggiavano nella casa in campagna di suo padre, dove non c’era ancora la luce elettrica ma solo qualche lume a petrolio, peraltro bellissimo. E furono svegliati (alle tre di notte) da accordi di mandolino provenienti dall’aia. Al mandolino si unì una chitarra e fu allora chiaro che si trattava di serenata. Come l’usanza imponeva, aprirono la porta ai suonatori e offrirono loro vino e biscotti. E si passò quel che restava della notte sull’aia sotto il grande fico, il cui fogliame – benché fitto fosse – non riusciva a coprire la visuale di un cielo pazzescamente stellato. Chitarra e mandolino suonarono fino all’alba, soverchiando il frinire dei grilli non il profumo della zagara che ornava la porta del casale. Era bello ascoltare la musica e ci si sentiva orgogliosi di appartenere al Mediterraneo. Quando i suonatori chiesero commiato, la prima luce imbiancava le creste delle colline; e nessuno poté più riprendere sonno.