Dopo gli straordinari risultati ottenuti da Barack Obama nelle elezioni presidenziali del 2008, nessuno dubita più dell’efficacia di Internet come strumento di comunicazione politica. Resta da stabilire se gli stessi risultati possano essere ottenuti in un Paese tecnologicamente molto meno avanzato degli Stati Uniti, qual è il nostro.
Questo libro offre alcune, sia pure parziali, risposte a tale interrogativo, analizzando i risultati di una ricerca empirica che l’Osservatorio di Comunicazione Politica (Ocp) dell’Università del Salento ha condotto sull’uso di Facebook nella campagna elettorale per le elezioni amministrative del 2009 in Puglia. Dalla ricerca emerge un quadro con luci ed ombre, dove, al caso barese di EmiLab – un collettivo di giovani sostenitori del sindaco Michele Emiliano protagonisti di un interessante esperimento di democrazia elettronica – si contrappone una situazione regionale meno entusiasmante, con i politici impegnati a sfruttare il mezzo come nuovo canale di propaganda, più che a valorizzarne le potenzialità di partecipazione dal basso.
I curatori: Carlo Formenti, ricercatore e docente di Teoria e tecnica dei nuovi media presso l’Università del Salento, è stato a lungo giornalista del “Corriere della Sera” con il quale tuttora collabora; Paolo Mele, coordinatore dell’Ocp dal 2005. I singoli saggi sono opera, oltre che dei due curatori, di Stefano Cristante, direttore dell’Ocp e docente di Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università del Salento; Debora De Fazio, assegnista di ricerca presso l’Università del Salento; Ludovico Fontana, giornalista del “Corriere del Mezzogiorno”; Pasqua Flore, responsabile dell’elaborazione dati dell’Ocp; e di un gruppo di giovani ricercatori (Ruggero Doronzo, Lucrezia Giulia Gorgoni, Marilena Locorotondo, Matteo Pagliara, Marco Saracino, Rosita Serra).
Prefazione
Nel suo ultimo libro, dedicato alla comunicazione come fondamento del potere nella società postmoderna (o informazionale, come questo autore preferisce definirla), Manuel Castells sembra accantonare il riserbo che aveva caratterizzato precedenti lavori per schierarsi decisamente nel campo dei teorici che identificano nella Rete l’unico strumento in grado di salvare la democrazia. Premesso che Castells non vede nella democrazia un insieme di scelte e indirizzi politici, bensì un sistema di processi, regole e procedure, la sua convinzione è che tale sistema stia attraversando la sua crisi più grave da quando si è affacciato sulla scena storica, agli albori della modernità. Indebolita dalla globalizzazione economica che riduce il potere decisionale degli stati nazione, stravolta dalla migrazione della lotta politica sul terreno dei media, con i conseguenti processi di spettacolarizzazione/personalizzazione (il politico è il messaggio, ironizza Castells parafrasando McLuhan) che esautorano i partiti esaltando il ruolo carismatico dei leader, sedotta da tentazioni populiste, corrotta da quella “politica dello scandalo” che contribuisce a ridurre ulteriormente la già scarsa fiducia dei cittadini nei confronti del sistema politico (e degli stessi media che la alimentano), la democrazia rappresentativa agonizza, sprofondando nella spirale – apparentemente senza ritorno – della delegittimazione. Ad agire da potente catalizzatore della crisi, se non a provocarla, sono, secondo Castells, i tradizionali mezzi di comunicazione di massa, grazie alla loro capacità di “plasmare la mente umana”. Il business dei media, sempre più concentrato nelle mani di un pugno di società transnazionali, sempre più integrato nei processi di finanziarizzazione che caratterizzano le dinamiche della Nuova Economia (e delle sue crisi), e sempre più in grado di influenzare (direttamente nel modello Berlusconi, indirettamente nel modello Murdoch) gli equilibri del potere politico, ci trascina inesorabilmente verso una società postdemocratica.
L’unico evento in grado di innescare controtendenze è, sostiene Castells, lo sviluppo della “autocomunicazione di massa”. Con questo termine, il sociologo catalano si riferisce a quel paradossale mix di personale e globale che caratterizza la comunicazione in rete: da un lato i messaggi (e tutti i tipi di contenuti) autoprodotti da un’utenza che ha dismesso i panni del pubblico per indossare quelli del produttore/distributore di conoscenze e informazioni, dall’altra l’inedito scenario per cui questi messaggi possono raggiungere una “audience” globale di un miliardo e mezzo di utenti di Internet. E ancora: fine della distinzione fra comunicazione interpersonale, autocomunicazione e comunicazione di massa, sempre più ibridate e implicate nel processo di convergenza fra vecchi e nuovi media, ormai integrati in un’unica piattaforma tecnologica (digitale). È vero, riconosce Castells, che i colossi globali-multimediali lavorano – con discreti risultati – per assorbire l’autocomunicazione di massa nei loro modelli di business, ma è altrettanto vero, aggiunge, che Internet è il terreno che ha favorito l’emergenza di inedite esperienze di contropotere: movimenti no global ed eco-pacifisti, ma anche nuove forme di democrazia partecipativa, che hanno trovato la loro espressione più clamorosa nel trionfo di un outsider qual era Barack Obama nelle elezioni presidenziali americane del 2008.
In effetti, la vittoriosa campagna elettorale condotta da Barack Obama rappresenta, come confermano i numerosi studi accademici che le sono stati dedicati, uno straordinario esempio di innovazione sul piano della comunicazione politica. In questo evento ritroviamo, da un lato, i caratteri tipici della postmodernità/postdemocraticità: centralità del carisma personale del leader, personalizzazione estrema del messaggio, professionalizzazione della comunicazione politica. Dall’altro lato, tuttavia, questi fattori non vengono finalizzati alla manipolazione/convinzione degli spettatori/elettori ma piuttosto alla mobilitazione di un esercito di volontari chiamati a organizzare dal basso la campagna. L’uso sistematico (e scientifico: basti pensare alla presenza di guru della net economy come Schmidt, Huges e Andreesen nel team degli spin doctors di Obama) delle piattaforme del Web 2.0 (Facebook, YouTube, Twitter, MySpace, ecc.) ha dato vita a uno scenario del tutto inedito: questi strumenti sono stati usati, più che per diffondere il messaggio del leader fra le masse, per consentire a milioni di sostenitori di dialogare fra di loro per organizzare eventi, raccogliere fondi, discutere il programma elettorale, convincere gli indecisi, ecc. La rete in generale e i social network in particolare (Facebook in testa, del resto il sito mybarackobama.com si presentava come una “fotocopia” di tale piattaforma) hanno offerto a Obama, considerato un outsider dalla “nomenclatura” del Partito Democratico, l’opportunità di costruirsi il “suo” partito, o meglio, di farsi portavoce ed espressione di un “Partito della Rete” che ha consentito per la prima volta alla “classe creativa” – leggi i milioni di cittadini americani che sfruttano le nuove tecnologie per produrre valore e accumulare capitale sociale – di dare corpo e voce ai propri valori, desideri, bisogni, interessi, aspettative e speranze.
Episodio destinato ad essere rapidamente riassorbito e “normalizzato” dalle tradizionali dinamiche del potere politico ed economico, oppure manifestazione aurorale di una nuova era, o almeno testimonianza della possibilità che – non solo negli Stati Uniti ma nel mondo intero, a partire dalla vecchia Europa – si sviluppino nuove forme di democrazia diretta e partecipativa, sottraendo i cittadini alla loro attuale esperienza di frustrazione, passività, cinismo e disincanto? Il libro che avete fra le mani non ha la pretesa di rispondere a un interrogativo così ambizioso; né potrebbe averla, dal momento che si limita a raccogliere e analizzare i risultati di una ricerca empirica che si riferisce ad unica piattaforma 2.0 (Facebook) e ne indaga l’utilizzo a fini di comunicazione politica in occasione di una campagna elettorale di rilievo locale (le elezioni amministrative del 2009 in Puglia). A dispetto dei limiti appena elencati, la ricerca offre spunti di riflessione estremamente interessanti in merito al grado di sviluppo che la democrazia elettronica (intesa come e.democracy e non come e.government) ha raggiunto nel nostro Paese. Del resto, lo scenario politico-culturale pugliese presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto a svolgere il ruolo di “esperienza tipo” in tal senso. In primo luogo, le elezioni regionali del 2005 avevano visto il successo di un leader politico, Nichi Vendola, che evoca diverse analogie con il caso Obama, sia per la sua posizione di outsider all’interno dello schieramento di centrosinistra (la sua vittoria alle primarie è stata per molti aspetti più sorprendente di quella di Obama nei confronti della favoritissima Hillary Clinton), sia per il peso decisivo che un elettorato giovanile con caratteristiche socioculturali analoghe a quelle della “classe creativa” che ha sostenuto Obama ha esercitato ai fini della sua vittoria, sia infine perché la campagna aveva conosciuto una forte mobilitazione dal basso da parte di comitati di volontari organizzati con logiche di rete (non necessariamente mediate da Internet, anche per la diffusione ancora relativamente modesta del medium sul territorio pugliese). A quattro anni di distanza, la ricerca sulle elezioni amministrative del 2009 si proponeva di verificare in quale misura le dinamiche osservate nel 2005 si fossero consolidate, magari anche grazie ad un ruolo più significativo dei nuovi media, nel frattempo penetrati più a fondo nella società pugliese. La scelta di concentrare la ricerca esclusivamente su Facebook è nata dal fatto che questa piattaforma aveva avuto uno sviluppo esplosivo nell’ultimo anno, surclassando gli altri social network, ma soprattutto attirando l’attenzione dei politici nei confronti del mezzo, considerato a torto o a ragione più facile ed efficace da utilizzare rispetto a strumenti tradizionali come posta elettronica, siti e blog.
Quali i risultati della ricerca? Per una loro analisi dettagliata rinviamo ovviamente al libro, anche se qui ne possiamo anticipare il senso generale con una battuta: “l’America è lontana”. I fattori di fondo della democrazia partecipativa made in Usa, come si è visto, sono tre: 1) emergenza dei lavoratori della conoscenza come strato sociale consapevole dei propri interessi, bisogni e valori; 2) uso sistematico della rete come strumento per difenderne gli interessi e promuoverne i valori, 3) mobilitazione dal basso e prevalenza della comunicazione orizzontale fra cittadini-elettori rispetto alla comunicazione dall’alto verso il basso fra leader e i sostenitori. Nelle elezioni amministrative analizzate dalla ricerca questi fattori si sono presentati tutti insieme, producendo effetti significativi sul piano della comunicazione politica, solo nell’esperienza pilota di Emi-Lab – il collettivo di giovani volontari che ha coordinato la campagna online di Michele Emiliano, in corsa per ottenere la rielezione a sindaco di Bari per il centrosinistra (vedi il Capitolo IV). Nell’insieme, si è dovuto invece prendere atto che è quasi del tutto mancato un uso consapevole della rete come strumento di partecipazione dal basso e di confronto orizzontale fra cittadini/elettori: il mezzo, in barba alla sua vocazione di social network, è stato usato soprattutto come canale di comunicazione politica dall’alto verso il basso, e/o come arena di uno scontro finalizzato al rafforzamento dell’appartenenza ideologica e alla polarizzazione identitaria.
L’America è lontana, o l’America è ancora lontana? La seconda formulazione presuppone che il modello americano rappresenti una sorta di anticipazione temporale di quello che – per effetto automatico della tecnologia e dell’omologazione culturale – dovrà necessariamente succedere altrove. Ecco perché chi scrive opta decisamente per la prima formulazione. L’America è lontana perché la nostra società e la nostra cultura (non solo politica) sono profondamente diverse da quelle di Oltreoceano, e nessuna tecnologia le potrà indirizzare nella stessa direzione. Senza dubbio i nuovi media hanno esercitato, esercitano e continueranno a esercitare una profonda influenza sull’economia, sulla politica e sulla cultura del nostro Paese, ma saranno a loro volta plasmati dal contesto ambientale. Insomma: la via italiana alla democrazia digitale è ancora tutta da costruire.
Carlo Formenti
Lecce, gennaio 2010