Protagonista di una delle più crudeli stragi naziste, l’eccidio delle Fosse Ardeatine, Wilhelm Zangen sconta in Italia gli arresti domiciliari, dopo l’estradizione dall’Argentina, dove si era rifugiato al termine della guerra, come tanti altri ufficiali del Terzo Reich.
Il caso, inaspettatamente, gli offre l’opportunità di aiutare il fratello di una delle vittime del 24 marzo ’44, un povero vecchio cui è stata occupata abusivamente la casa popolare.
La vicenda paradossale, che vede i diabolici fantasmi della storia nella parte dei paladini dei più deboli e lo Stato democratico nella parte di un giustiziere dei poveri inetto e inefficace, tocca il tema della divisione delle colpe, dell’impossibilità di distinguere con certezza il bene dal male, dello scambio dei ruoli tra vittima e carnefice.
Francesco Cammisa è nato nel 1959 a Napoli, dove vive e insegna Storia del diritto medievale e moderno presso la Facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università. È autore di numerosi saggi e di tre romanzi:
L’antirickler (2003),
Pavana per carogne impenitenti (2005) e
Il tempo di Caino (2007).
INCIPIT
La luce dell’alba che filtrava dai battenti vicini della finestra sorprese “Spartaco” ancora sveglio, supino sul letto, le braccia incrociate dietro la testa, lo sguardo fisso nel vuoto. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, pervaso dall’ansia, rimuginando sulla difficile impresa organizzata dai compagni. Il giorno x era arrivato. Dalle parole sarebbero passati ai fatti. Per quanto il piano fosse stato preparato in ogni particolare, i rischi erano altissimi. Bastava un’inezia perché tutto andasse a monte, e in tal caso ci avrebbero rimesso la pelle. Anche Carla, sua moglie, era inquieta. L’aveva sentita rivoltarsi di continuo nel letto, incapace di prender sonno. “Spartaco” non voleva che Carla partecipasse all’azione, ma lei era stata irremovibile nella sua scelta di far parte del gruppo. Per nessuna ragione al mondo l’avrebbe lasciato solo nel pericolo. Se proprio dovevano crepare, era meglio che se ne andassero insieme al Creatore. Senza di lui, sarebbe stato inutile continuare a vivere.
La sveglia suonò alle otto, ma entrambi erano già desti da un bel pezzo. La cautela si rivelò inutile. Scesero dal letto e andarono in cucina. Carla iniziò a preparare il caffè. Era un lusso per quei tempi. Ormai con la guerra non si trovava più nulla in giro e per sfamarsi occorreva fare salti mortali. Il caffè era stato un dono di “Emilio”, un dirigente dei GAP.
«Visto che domani non ve la spasserete, è giusto che cominciate la giornata con una tazzina come Dio comanda», aveva detto a “Spartaco” e Carla la sera prima, consegnando loro il piccolo sacchetto di carta che conteneva il prezioso macinato.
Dopo aver sorseggiato il caffè con movimenti lenti e solenni, adeguati al privilegio di cui stavano godendo, s’accesero una sigaretta e fumarono in silenzio. “Spartaco” notò che a Carla tremava la mano. Sentì il bisogno di darle coraggio.
«Andrà tutto bene», sussurrò, accarezzandole la spalla.
Carla annuì con un sorriso mesto, che tradiva stanchezza e ansia.
Poco prima di mezzogiorno si prepararono. “Spartaco” indossò un paio di pantaloni vecchi e calzò scarpe di copale malridotte, allacciate con uno spaghetto rosso, mentre Carla mise nella borsetta una pistola con due caricatori di ricambio e poggiò sull’avambraccio l’impermeabile di “Spartaco”. Quindi, uscirono e si avviarono a piedi verso piazza Santi Apostoli. La giornata era splendida e insolitamente mite per la stagione in corso. Sembrava quasi che fosse estate. Faceva tanto caldo che quando raggiunsero la bottiglieria s’accorsero d’esser sudati. “Spartaco” s’asciugò la fronte col palmo della mano.