Il giorno dell’impazienza
Il giorno dell’impazienza
Continua ad indagare in profondità letteratura e politica e di questo scrive su riviste specializzate.
Introduzione
Oggi sembra che molti tra i critici letterari abbiano perduto la nozione del ruolo che l’ideologia ha nella vita delle collettività e degli individui, dal punto di vista culturale, politico, psicologico e antropologico. L’obiettivo di questo studio è quello di fornire un primo, parziale, contributo critico che abbia lo scopo di evidenziare i nessi tra ideologia, scrittura, avanguardia e realismo nelle opere che ho ritenuto essere le più rappresentative di questo scrittore. Pur essendo nota la connotazione negativa che il termine “ideologia” ha assunto nella tradizione marxista (ideologia come “falsa coscienza”, che tende a rimuovere la materialità della praxis reale per privilegiare l’astrattezza delle idee), ciò che credo si possa rintracciare nel percorso letterario di Balestrini è la marcata dissonanza da coloro i quali, anche all’interno della Neoavanguardia, hanno inteso presentare come innovativo e artisticamente valido (finendo per farne una sorta di dogma esclusivo) il carattere aideologico e disimpegnato della letteratura d’avanguardia, scadendo, di fatto, nell’accettazione passiva dell’autonomia e dell’autoreferenzialità dell’opera d’arte. Posizione, quest’ultima, tutt’altro che nuova nel panorama letterario italiano ed europeo. La caratteristica dell’avanguardia non è tanto l’aideologicità, quanto la «consapevolezza del carattere non neutrale del linguaggio». L’ideologia è un’ineliminabile attività umana di rappresentazione simbolica del mondo che, spesso, ha la funzione di legittimare l’autorità del sistema al potere, colmando il divario che esiste tra «la pretesa di legittimazione avanzata dall’autorità e la credenza in tale legittimità offerta dai cittadini». Per lo scrittore d’avanguardia, la funzione dell’ideologia si rovescia: essa si configura come un continuo tentativo di decifrazione della realtà, antagonistica con la pretesa della classe dominante di affermare, mediante l’egemonia linguistica, il suo sistema di valori.
La particolarità che distingue l’operazione avanguardistica è la proposizione del testo come sintomo della contraddizione esistente all’interno della società e dell’universo storico-sociale a cui esso è indissolubilmente legato. La chiave di lettura che ho seguito nell’analizzare alcune tra le opere poetiche di Balestrini è stata quindi quella di considerarle come processo di immersione nell’atto compositivo, nel “fare” poetico, secondo il significato etimologico della parola (poiesis: da poiein, fare, produrre).
La scrittura di Balestrini si sviluppa attraverso il recupero e l’utilizzo di varie tecniche di elaborazione, utilizzate in passato dalle avanguardie primonovecentesche (dai surrealisti ai dadaisti ad una parte dei futuristi italiani), quali il collage, il cut-up e il montaggio di “materiali verbali” preformati. Avversando una forma che adotta il linguaggio come strumento definitorio della realtà, il risultato che si ottiene è una composizione che si muove tra la percezione del linguaggio come “ordigno autosufficiente”, come trasposizione in atto ludico di una materialità linguistica legata al proprio tempo, e una poesia più prettamente civile, in grado di mettere il lettore di fronte alle voci caotiche e contraddittorie che spesso hanno animato i dibattiti politici dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta.
Fortemente condizionate dalla loro struttura sono anche le opere narrative. Dopo un primo romanzo legato strettamente all’ambiente di ricerca neoavanguardistico (Tristano, 1966), in cui viene messa in scena una polemica “fine del racconto”, Balestrini avvia, con la pubblicazione nel 1971 di Vogliamo tutto, una narrazione, da lui stesso definita «epica», della realtà sociale italiana. I caratteri che egli riprende dall’epica riguardano sia l’assetto formale del testo (organizzazione della narrazione in lasse a lunghezza variabile, conservazione della funzione retorica performativa), sia l’eroe, le cui gesta rappresentano «non un destino individuale, ma il destino di una comunità». In Vogliamo tutto o ne Gli invisibili (1987) la voce chiamata alla narrazione è una sola, ma essa ha la funzione epica di voce narrante collettiva, che esprime e interpreta il gruppo sociale con il particolare linguaggio di questo. Ed essendo l’eroe portavoce dei «desideri e delle “energie” di diversi individui, e dunque anche di insanabili contraddizioni» è impossibile per l’autore far del tutto coincidere, con la visione dell’eroe, la propria visione del mondo. I protagonisti dei romanzi epici, successivi a Tristano, sono “senza psicologia” e proiettati totalmente verso l’esterno, nell’azione conflittuale in cui l’impulso utopico dell’eroe si scontra con una realtà sociale che tende a reprimere e a frustrare le sue aspirazioni al cambiamento. Inoltre, caratteristica specifica di tutti i suoi romanzi è il principio stilistico del montaggio. Volantini, ciclostilati, slogan politici, cronache giornalistiche, voci registrate al magnetofono si inseriscono spesso nei testi, costituendone gran parte dell’ossatura. E proprio il montaggio, ha scritto Benjamin, «scardina il romanzo sia nella struttura che nello stile, dischiudendo nuove soluzioni tipicamente epiche», in cui il primato è affidato al documento, espressione di un lacerto di vita quotidiana in grado di conferire ex novo autenticità alla narrazione. Nasce quindi un’epica che ha la funzione di recuperare il rapporto, reso logoro dal tempo frammentato e discontinuo del moderno in cui essa è inserita, del pubblico lettore (a cui è indirizzata) con la sua memoria e quindi con una parte della sua storia collettiva. In questo senso, come ha affermato Zumthor, l’epica è una necessaria finzione autobiografica. Identificandosi nel racconto del vissuto di brani di vite collettive, l’epica instaura una finzione; «e questa finzione costituisce immediatamente, in quanto tale, un bene comune, un piano di riferimento e la giustificazione di un comportamento». La peculiarità del Balestrini narratore è, dunque, il ripristino di una funzione epica della letteratura, con la narrazione di gesta tramandate oralmente da una collettività, ma anche la rappresentazione di un contesto storico lacerato da un conflitto, in cui la classe sociale antagonista, sconfitta, si oppone al tentativo dei vincitori di cancellarla dalla memoria collettiva. Il risultato è quello di spezzare il «continuum della storia» e di assegnare al racconto una funzione sociale rivoluzionaria. La rappresentazione della realtà ha, brechtianamente, lo scopo di agire su di essa.
Recuperando il ruolo classico di “cantore di gesta” che dà voce ai diversi protagonisti dei movimenti collettivi dell’Italia degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, Balestrini si oppone alle tesi postmoderniste della fine della Storia o della riduzione di essa a puro gioco intertestuale, sfidando il silenzio e l’indifferenza della letteratura per riaffermare, attraverso il linguaggio, l’esistenza di una realtà concreta.