Il libro dei turbamenti

Il libro dei turbamenti

copertina
anno
2005
Argomento
Collana
Categoria
pagine
96
isbn
88-8176-721-X
9,50 €
Titolo
Il libro dei turbamenti
Prezzo
10,00 €
ISBN
88-8176-721-X

Un giorno di luglio del 1949. Allo stabilimento balneare Venezia, ospite dei genitori di un bambino di otto anni, e io narrante della storia, giunge una coppia di sposi. Da qui in poi è un susseguirsi di piccoli e grandi colpi di scena. L’epilogo della storia è, nella sua drammaticità, inaspettato.
La Calabria di Domenico Vuoto è una Calabria che non si era mai letta. È la prima volta che l’aspro “interno” calabrese viene raccontato con tanta delicatezza, con umorismo surreale, con questa eleganza stilistica. Il libro dei turbamenti è un romanzo di formazione, oltre che resoconto appassionato di un periodo e di una generazione marchiata a fuoco dalla guerra.
                                                                  Andrea Di Consoli

Su Il libro dei turbamenti di Domenico Vuoto, di Rodolfo Di Biasio
 
Il libro dei turbamenti (Manni Editore 2006) è racconto inquieto, perturbante, capace di riportare il lettore a un tempo oscuro e frastagliato che gli è appartenuto ma che gli sembra di non poter più rammemorare per i troppi anni che si sono accumulati: tempo magmatico in cui l’innocenza del bimbo cede di fronte all’impetuoso incalzare di pulsioni altre e forti che aprono all’adolescenza. In effetti l’io narrante, il protagonista del racconto di Domenico Vuoto, ha otto anni. Di quella stagione l’autore ritaglia però una sola giornata, una giornata che si fa indimenticabile, rivisitata com’è da una memoria acuminata che spasima per scandire in modo quasi geometrico spazi e tempi. Penso allo sforzo per registrare la successione delle ore che segnano il ritmo del racconto o degli spazi occupati dai protagonisti o dei loro movimenti resi come solo può renderli una macchina da presa. Ed è proprio qui che Domenico Vuoto gioca le sue carte di narratore. Sul tracciato spazio-temporale del racconto, l’autore apre varchi che tessono di volta in volta una geografia dei luoghi (“una Calabria che non si era mai letta” scrive Di Consoli nella quarta di copertina), una mappa dei personaggi e degli eventi. Vuoto sa passare cioè dal microtempo della giornata narrata al macrotempo della stagione del protagonista, sicché l’attualità della storia si carica di ancora più ampie esperienze e sensazioni.
Penso, ad esempio, alla rievocazione del personaggio dello zio Rodolfo che compare nel primo capitolo e che sembrerebbe non dovere incidere nel racconto anche se poi, a pareggiare la partita, compare proprio nelle finali e definitive righe del libro: “E ho pensato allo zio Rodolfo, alle fiere dove non avrebbe più esposto i suoi giocattoli. Dov’era in quel momento? Quale viaggio aveva intrapreso portatato per mano dalla sua inquietudine?” Rodolfo è lo zio “avventuroso” che agli occhi del protagonista rompe la noiosa ripetitività della vita familiare e di un ambiente scanditi da ritmi e comportamenti prevedibili nella loro successione. O penso ancora alle pagine dedicate a Fort Apache, il luogo proibito dal padre, in cui il protagonista si avventura e dove scopre per la prima volta i turbamenti della sessualità. È una pagina di memorabile efficacia, questa, di un nitore e di un equilibrio assai rari.
La giornata narrata diviene, sequenza dopo sequenza, serratamente, una sorta di contenitore in cui il precipitato delle esperienze e delle sensazioni del protagonista viene a depositarsi e a innescare un meccanismo che lo inizia ad un attraversamento di sé e degli altri che appartiene proprio ai romanzi di formazione, perché questo di Domenico Vuoto è anche romanzo di formazione.
L’evento scatenante di tale attraversamento è l’arrivo di una coppia di sposi allo stabilimento balneare Venezia, ospite dei genitori. L’attacco del racconto è fulminante e bellissimo: “Quel giorno del quarantanove al Venezia.”
Ma è tutta la pagina e mezza iniziale dello stesso tono. Nella sua essenzialità essa funge da prologo e fissa, come accadeva negli antichi drammi, il luogo, i personaggi e il loro ruolo.
I personaggi a questo punto cominciano a interagire, ma è lei, Filù, la sposa di Nardo (Nardo è l’antagonista nel racconto) che ben presto cattura il cuore e i sensi del protagonista. A partire dal suo nome Filù: “Avevo l’impressione che la donna non avrebbe potuto che chiamarsi Filù, e Filù non avrebbe potuto designare altro che quella donna, come la parola cielo designa il cielo e la parola terra il suolo sul quale camminiamo. E se di violenza si poteva parlare in questo caso, essa consisteva nella perfetta simbiosi del nome con la persona; nell’essere lui prigioniera di lei, e viceversa. La percezione di quel rapporto tra nome e persona mi balenò in mente quando misi insieme il vezzeggiativo con le unghie laccate di rosso della nostra ospite e la sua bocca dipinta a cuoricino col rossetto”.
Da qui in poi il racconto non è che l’esplorazione della donna da parte del ragazzo; un seguirla, uno scrutarla, uno scandagliarla inesausti. Non vi è che lei e ogni comportamento degli altri è visualizzato e interpretato solo in rapporto a lei, che invece nel racconto pare sempre reagire passivamente, pare non recepire l’ossessione del ragazzo che di lei invece registra ogni piccola variazione nell’umore e negli atteggiamenti.
Domenico Vuoto accompagna il suo protagonista in questo suo attraversamento passo passo. Ne viene fuori una trama fatta di inneschi, di mine che dovrebbero deflagrare e che invece non deflagrano, di umori, di appetiti che si consumano solo nell’immaginario.
Fino alla scena conclusiva del romanzo, quando Filù a un certo punto pare uscire da se stessa, da una rete che l’ha a lungo soffocata e si allontana prima a piccoli passi, poi sempre più rapida: “Giunta sulla strada, Filù ha camminato da principio lentamente. Poi un po’ più svelta, poi di lena. Andava a sinistra nella direzione del Vallone e la sua figura vestita di chiaro filava che era un piacere sulla via debolmente rischiarata dalla luce, proprio come se avesse un gran daffare. Giù, giù con l’eleganza di una regina, la gonna che fluttuava appena, lasciando che l’ombra l’avvolgesse tutta. Ed io ho pensato: Va alla Collina degli Angeli”.
Siamo alla magistrale pagina finale in cui, dietro Filù che avanza come una regina e tutti gli altri che le corrono dietro come in una vecchia comica di Ridolini, il ragazzo si appropria di se stesso. Non vuole seguire gli altri che vengono inghiottiti dal Vallone, vorrebbe solo gridare, vorrebbe lanciare un grido che “raggiungesse il cielo frantumando la sua volta di cristallo nero”, e invece gli viene in mente il polverio di parole, di persone che erano state oggetto di conversazione durante tutta la giornata e che sembravano averlo sfiorato appena.
Il ragazzo ha attraversato il guado, la giornata è alle spalle: “Stavo bene. A breve distanza, Fort Apache dormiva. Intorno non c’era un suono, una voce. Il silenzio avvolgeva la terra. Mi sentivo così leggero, così pieno di misteriosa gratitudine che gli occhi mi si umidivano. Avessi potuto stendermi sul divano, e addormentarmi.”
L’attraversamento della giornata lascia il ragazzo “pieno di una misteriosa gratitudine” ed è forse proprio in “questa misteriosa gratitudine” il senso più profondo e più vero del romanzo di Domenico Vuoto.
Una materia come questa non può che risultare “misteriosa”, ma dal fondo del mistero ecco la “gratitudine” che spazza via i rancori e le rancure e placa le inquietudini adolescenziali ed apre ad altri orizzonti.
Una materia, come dicevo all’inizio, magmatica, inquieta e perturbante, ma essa viene, per così dire, ordinata e placata in virtù di una scrittura alta e controllata in ogni dettaglio, una scrittura cui da tempo eravamo disabituati. Un fraseggio armonico che restituisce alla parola, per il suo carico di bellezza, la funzione di dire e di pacificare.