Italia paese a folle
Italia paese a folle
INCIPIT
Le maschere
E così l’immorale fa l’apologia della moralità e punta l’indice sulla immoralità del vicino; l’invidioso si sente perseguitato dall’invidia; il furbo elogia l’ingenuo per poterlo “far fesso”; il mascalzone non crede al probo e gli punta contro le proprie armi, sempre più affilate; l’invadente non tollera l’invadenza altrui e se ne scandalizza. “Una vecchia storia sempre nuova”, direbbe qualcuno.
Ognuno trascorre almeno un terzo della propria vita a spigolare ossessivamente nel consolante pascolo delle altrui debolezze, cercando di “aver compagno al duol”, il che, si sa, “scema la pena”.
Il prossimo non è mai distratto, ma sempre attento: non tanto a mantenersi in equilibrio sulla sua strada, quanto a verbalizzare, ad incasellare la contabilità di quelle cadute altrui con cui costruisce le proprie stampelle. Così Titta Madìa poteva scrivere che “si vive del male altrui più che del bene proprio”. Veracemente.
Eppoi, il più delle volte è questa questione di tattica. Non tutti la pensano come quel commissario tecnico della nazionale di calcio italiana che per attaccare si difende. Chi punta l’indice contro il prossimo senza avere le carte in regola per farlo, lo fa sempre per difendersi, attaccando. E benché in fuori gioco, cerca sempre di fare il furbo e di sorprendere l’avversario sul tempo. Fin quando non trova un arbitro a fischiargli il fallo o un… Luigi Pirandello a porgergli uno scampolo di riflessione: “Mondo è teatro e l’uomo è marionetta / se vi guardate bene nella vita / ognun vi rappresenta una scenetta…”.
Già. Ma chi cerca più verità in Luigi Pirandello. Forse nemmeno il sottoscritto che, per due settimane, è stato vinto dal penoso fascino di Bearzot & Co. ai mondiali di calcio in Messico. Vergognosamente.
La morte in vetrina
Anche qui la scintilla del genio italico è riuscita a sbizzarrirsi oltre ogni immaginazione. Sarcofagi in radica, laccati, metallizzati; bare con doppia apertura (come il doppio ingresso negli appartamenti di lusso), con coperchio di vetro e refrigerato (anche i defunti soffrono la canicola). Oltre agli accessori più svariati, broccati, taffetas, guarnizioni in peltro e dorate, corone e cuscini, è stata presentata – e se ne sentiva la mancanza, in verità – la bara firmata, presentata da una pittrice italiana.
E poiché la esposizione è stata preceduta da un convegno, devo presumere che con tali accessoriatissime premesse, tema del convegno sia stato “Il piacere di morire”.
Che problema, ora, morire!
Un mio vecchio amico, dei tempi in cui morire era un… morire, sosteneva che “morire non è difficile, difficile è vivere, tanto è vero che tutti muoiono nell’eguale modo, il cuore che si ferma, ma tutti vivono in modo diverso, risolvendo diversamente il problema quotidiano”.
L’avesse immaginato! Che morire, specie oggi, è anche un problema di scelta tra il velluto e il taffetas, tra i 18 e i 24 carati della borchia sul copricassa, tra il trasporto in Rolls-Royce e quello con furgoncino Diesel, tra un loculo autentico e uno rifatto. È diventato, insomma, un problema di stile. E di buon gusto.
Ma, a pensarci bene, forse quel mio vecchio amico continua ad aver ragione. Perché in questa fiera i morti non c’entrano. Nell’attimo dell’ultimo respiro è sempre difficile pensare con quali guarnizioni presentarsi al Padreterno. È sempre la vanità dei viventi che tenta di riscattarsi dal macerante rimorso ch’è in Jules Renard, quando nel suo Journal, annota: “La morte è fatta male. Bisognerebbe che i nostri morti, rispondendo ad un richiamo, ritornassero di tanto in tanto a discorrere un quarto d’ora con noi. Son tante le cose che non gli abbiamo detto quando erano vivi”.
È fatta male la morte? O son gli uomini, sbagliati?