La morte data

La morte data

copertina
anno
2009
Collana
Categoria
pagine
192
isbn
978-88-6266-211-6
17,10 €
Titolo
La morte data
Prezzo
18,00 €
ISBN
978-88-6266-211-6
Dieci storie, diverse pure per epoca e ambientazione, indagano, attraverso i personaggi, i temi centrali dell’esistenza umana. La fabula ha presente il racconto filosofico classico e mette anche in luce la razionalità e i sentimenti di oggi. Su tutto campeggia il gusto della narrazione, il suo azzardo, la sfida del testo come letteratura.
 
Mario Massimo è nato nel 1947 a Foggia dove vive, ed è docente di Lettere presso un liceo.

Pubblichiamo l'intervento di Giuseppe Neri alla presentazione tenutasi nella Libreria Odredek il 28 ottobre 2010:

Accanto alla romanzeria ufficiale, pubblicata dalle grosse case editrici, recensita dai giornali, ospitata dalla televisione e che è quasi sempre prevedibile, perché rifiuta l’azzardo della ricerca espressiva, privilegiando una lingua d’uso e di pronto consumo, esiste ormai in Italia uno stuolo di altri scrittori, non pubblicizzato e dunque poco visibile, che, in solitudine e con ostinazione, continua a concepire la letteratura come il luogo deputato per sondare gli enigmi della vita, per decifrare il mondo, per interrogarsi sul senso delle cose. E lo fa, spesso, con l’invenzione di strumenti espressivi di marcata caratura espressionistica, con una miscela linguistica idonea a restituirci il magma della vita.
A quest’ultima razza di scrittori appartiene Mario Massimo, di cui l’editore Manni ha pubblicato il volume La morte data , che riunisce dieci racconti. Dieci racconti inattuali e perciò necessari. Già, perché Mario Massimo non rincorre la cronaca, non si fa suggestionare dalla sirena dell’attualità, convinto com’è che il campo d’indagine per uno scrittore si restringe a pochi temi, a quelle poche grandi domande che da sempre assillano l’uomo e intorno alle quali, da sempre, ogni autentico scrittore non cessa di affissare la propria attenzione, nell’illusione o nella speranza sempre delusa di arrivare se non a una risposta, a sbriciolarne, a scalfirne l’inviolabile enigmaticità.
Ecco, allora, che non dobbiamo meravigliarci se per affrontare il tema della morte e, più specificatamente, della morte inflitta da parte dello Stato, tema purtroppo ancora drammaticamente attuale nel mondo di oggi, lo scrittore ricorre alle riflessioni di un preoccupato magistrato dell’antica Roma - Flavio Voreniano – nel racconto intitolato, appunto, La morte data ; o, volendo trattare un argomento intorno al quale filosofi, poeti e scienziati non hanno mai cessato d’interrogarsi e cioè il tema del senso della vita, del perchè si viene al mondo, l’autore mette a confronto, in una Napoli dei tempi andati, le opinioni di un vecchio e malandato principe e di un suo servo, opinioni naturalmente divergenti, proprio perché i due guardano il mondo e la vita da prospettive diverse. Per Sua Signoria, dissipatore di lusso “non c’è una ragione, a venire al mondo, in un mondo così mescidiato di sporco e di orrore, se pure si trova ogni tanto una perla dentro il letamaio. E prendeva a elencare le cose per cui essere stati scaraventati alla luce si rivela una turlupinatura sleale: la labilità stessa del piacere e il doverne sempre desiderare dell’altro, o quel tuo trasmutarti col tempo e non essere più quello di prima, e la sola cosa che non cambia è la sterile refrattarietà del ricordo, che se ti riporta, e magari quando non lo vuoi neanche tu, a tradimento, le cose che hai vissuto, i volti, le voci, l’aspetto dei luoghi e come eri tu al momento in cui ci vivevi, te ne fa misurare allo stesso tempo la perdita, il disfacimento, l’irrecuperabile fine”. Il servo Aniello, che avverte queste ragioni come un ulteriore insulto alla sua condizione, può giustamente replicare nel suo stretto dialetto napoletano: “ Ccà, dich’io, ce stesse da séntere comm’è ca se vede ‘sto munno da ‘ndò stongh’io: e rint’a ‘sta cosa, d’o nascere, nun ce po’ mettere vocca nisciuno meglio ‘e me, ca nun saccio manco chi m’è stato pate, e chi è màmmema”. Eppure, proprio lui, alla fine, una ragione per stare al mondo, la trova.
Scrittore dalla marcata vocazione riflessiva e dialettica che stempera in una tessitura narrativa variegata e dalle molteplici tonalità, Mario Massimo si aggira fra gli anfratti e le quinte della Storia non tanto alla ricerca dell’avvenimento eclatante e poco noto, del fatto memorabile e magari trascurato, dell’episodio ignorato ma significativo: no, quello che al nostro autore interessa, sia pure proiettato su un determinato fondale storico, è l’atteggiamento dell’uomo, la sua reazione, il suo rapportarsi con la realtà e gli eventi che si trova a dover fronteggiare. Insomma quello che a Mario Massimo interessa è leggere criticamente, per darne poi appropriata ed efficace rappresentazione, i fatti e gli accadimenti che scandiscono la vita degli uomini e ne determinano i comportamenti, gli episodi e le vicende con i quali si scrivono gli annali della microstoria.
Esemplare, da questo punto di vista, ci sembra il racconto – quasi un romanzo breve – dal titolo amaramente antifrastico I tempi nuovi,un racconto che ci porta in una cittadina del Mezzogiorno d’Italia, una terra dove “l’ultima cosa di un qualche rilievo che fosse capitata nelle vicinanze era la vittoria di Annibale al tempo delle guerre puniche, e poi niente più, tutto sempre piatto, monotono, senza vita vera né sangue”.
Quella immobilità secolare sembrerebbe poter essere incrinata, se non addirittura spazzata via, dai memorabili avvenimenti che stanno accadendo nel Paese: l’eco della spedizione dei Mille e la caduta del Borbone arriva sino a quelle popolazioni, suscita timori fra i galantuomini e accende illusioni e speranze fra i diseredati, i contadini senza terra, gli sfruttati. Ma l’euforia di questi ultimi sarà di breve durata : il nuovo ordine, i tempi nuovi assomiglieranno, inesorabilmente,all’ancien régime,e ai contadini che, vista sfumare la speranza di un’equa redistribuzione della terra, si illudono di poter attuare la giustizia e la vera uguaglianza con la rivolta, si risponde con le scariche di fucileria: “Così tutto fu calmo nuovamente, e sotto il controllo delle autorità e nel nome del re che doveva far finire il vecchio sistema, la persecuzione cieca di ogni idea di progresso e la negazione dell’uomo”
Su questa trama concettuale, Mario Massimo scrive un racconto che va a collocarsi nel solco della migliore letteratura meridionale e che trova nella novella Libertà del Verga e nel disincanto aristocratico del Gattopardo i due poli di riferimento.
Prima di chiudere questi veloci appunti, vorremmo far cenno ad un altro racconto – Una donna d’ombra – che, a tutta prima, sembra la storia di un figlio alla ricerca della madre. In realtà, anche se questa rimane l’ossatura, il racconto è molto più complesso. Abilità di Mario Massimo, in questo come negli altri racconti, è proprio quella di innestare e di far convergere sull’asse portante della narrazione, una serie di altri motivi e di altri spunti, capaci di dilatare la vicenda e di proiettarla su scenari nei quali spesso l’agire individuale si scontra con una logica cieca e furiosa, che può essere quella del Potere, della ragion di Stato, dell’ideologia e via elencando, Per poter comprendere la conclusione di questo racconto, che arriva imprevista e drammatica, bisognerà dire che esso è ambientato all’epoca in cui un Muro tagliava in due la città di Berlino e il clima era quello della guerra fredda. Ecco, dunque, che ancora una volta il fiato della Storia viene ad aleggiare su queste pagine e ad interferire sul destino dei personaggi.
A questo punto, se dovessimo indicare qual è il vero protagonista de La morte data , non avremmo esitazione a rispondere: la scrittura. Mario Massimo, come ogni autentico scrittore, sa che quel che conta, in una narrazione, non è cosa raccontare, ma come raccontarlo, sa che è il linguaggio ad inverare e dare credibilità alla cosa , che è il linguaggio a reinventare la realtà. Ed è per questo che si è costruito uno strumento espressivo di grande incisività.
Una scrittura, la sua, lavorata, grumosa, barocca, una scrittura d’intonazione espressionistica che impasta lessico ricercato e lacerti dialettali, che ingloba metafore e similitudini, una scrittura che ora si sventaglia in un periodare ampio e incalzante, e ora s’attorce, fra volute di subordinate e parentetiche, in un’avvolgente spirale.
Vorremmo concludere queste note con una citazione che, pur nella sua brevità, è idonea a darci lo spessore e, staremmo per dire, il sapore di questa scrittura: “Impressioni che non si affievolirono in Flavio Voreniano benché ormai già venisse condotto, caduta che fu finalmente la sera, in lettiga, a spalle, alla villa appartata fra uliveti e vigne, dove la presenza del mare non aveva più l’esuberanza lebbrosa con cui, giù in città, erodeva intonaci e legni, ma si assottigliava a festone di azzurro bordato dai sassi candidissimi a riva, in distanza”.