La passeggiata
La passeggiata
Progetto grafico di Roberto Gorla e Michela Barbiero
Il suo ultimo libro è Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, Laterza 2008.
INCIPIT
Il vecchio scrittore camminava in una strada del suo quartiere di Parigi, in mano reggeva una borsa di plastica con dentro il pane, il giornale, forse dei libri, e dentro di sé rimuginava delle frasi al ritmo lento dei passi. Sopra la testa, appeso al cielo azzurro, un treno di nuvole bianche correva più forte del metrò, e quando il sole rispuntò al termine di quella corsa vaporosa, le frasi, combinatesi assieme, tratteggiavano quasi riconoscibile il profilo di una storia.
Non era proprio un’idea, ma ne sentiva il fruscio dentro la testa, e non aveva nulla da perdere a seguirlo. Nessuno scopo, tranne forse il piacere. Il tono era quello che in fondo covava da tempo: banale, avrebbe detto una volta. Ma tutto l’opposto dell’Ammutinamento del Bounty o Via col vento.
Se è per questo, anche tutto il contrario di quello che aveva scritto fino allora: “romanzi”. Dire, più che raccontare. Qual era poi la differenza? Che uno deve sapere in anticipo che cosa sia importante. Che presunzione. Qualcuno gli aveva detto: “se uno fuma la pipa, questa è una storia”; “se uno ha un cane, questa è una storia”. Il vecchio scrittore aveva riso, ora non gli sembrava più tanto strano. Per esempio, lui sentiva freddo ai piedi: era anche questa una storia? Al posto di quelle vecchie trame che si trascinano fino al capolinea come vecchie ciabatte in un tinello, gli veniva voglia di fare i riassunti di ciò che non gli importava più di raccontare. Un vecchio cammina con la borsa della spesa: questa è una storia.
No, è la storia di un giovane che abita in città, e che improvvisamente ha paura di morire. Più che di un racconto, sogghignò, aveva l’aria di una meditazione patetica, genere alquanto in disuso. Forse il giovane non ha esattamente paura di morire. È la storia di qualcuno che si vorrebbe opporre a qualcosa. Ma non sa bene a che cosa. Gli vennero in mente due versi della poesia di un amico più anziano di lui: “…capace di morire su una barricata. / Ma non di viverci”. I personaggi dei racconti muoiono sempre quando finisce la storia. Come nelle tragedie? Beh, la sua non sarebbe durata più di dieci pagine.
Chissà perché era sempre quando camminava che gli venivano in testa delle frasi. Poteva anche essere una detective story vecchio stile, pensò. Magari poi proliferava in una serie. L’idea lo divertì. Nel presentimento della fine, il personaggio si sarebbe dedicato a risolvere un caso poliziesco – spinto dalla passione o l’amicizia, come Philip Marlowe. Quante ricche descrizioni del mondo nell’imminenza di lasciarlo per sempre! Che frivolezza, però, diceva ora tra sé e sé, volersi mettere a scrivere racconti alla mia età, e così carichi di pretese. Avrebbe inventato una morte tragicomica. Il suo investigatore dilettante sarebbe stato affetto dalla malattia del secolo. Un morbo mortale i cui sintomi erano macchie blu sul volto e ingrassamento smisurato. Un morbo che avanzava per qualche tempo anche sui cadaveri. Dialogo col becchino: “Dottò, continuano a ingrassare anche dopo morti, a volte anche tre o quattro settimane. Ci stanno delle bare che sono scoppiate, tanto erano gonfi. Anche lei, però…” – aggiungeva guardandolo. Intravide la descrizione di un viale urbano notturno, metà Fellini e metà Blade Runner, popolato di prostitute. Riconoscibili quelle affette dal morbo: erano le più grasse, con la carnagione bluastra. Il suo investigatore, che era piuttosto un bel giovanotto, nel corso della storia sarebbe diventato un obeso (anche se ora non escludeva a priori la possibilità del lieto fine). Gli era anche venuto in mente il nome da appioppargli: Céleste, l’investigatore triste.