La prigione sotto la neve
La prigione sotto la neve
La mia stanza
Se riesco a capirci qualcosa, dovrei trovarmi nel lato est del piano alto di questo carcere enorme, fatto di pietre e di idee sovrastanti. L’estremità affacciata su una piazza dove passeggiano persone e scorrono auto in continuazione da mattina a sera.
Poco più in là c’è sicuramente una chiesa con le campane vicine. Suonano a festa, battono a morte, maltrattando l’aria e i minuti insieme ad un altoparlante che diffonde i fruscii gracchi dei riti e delle funzioni. Ed io cerco di distinguere bene bene le parole, le preghiere, i canti. Per percepire incuriosito, insaziabile, tutto quello che sfugge a caso dall’esterno. Per recuperare una commozione improbabile di molteplicità. Briciole di vita ordinaria. O tanto per sentire altre voci, differenti da quelle poche che girano qui dentro. Intransigenti, uguali, vessatorie, essenziali, deperite.
Durante le uscite obbligate nel cortile d’aria, certe volte intravedo lontano lontano qualche spicchio di balcone e donne così minuscole a sistemare una pianta o panni freschi da asciugare. Raramente, nelle giornate di sole, appare una macchia di bambino grande quanto una mezza sigaretta, che gira intorno alle loro gonne o si siede per terra a riposare o a strillare.
Sorrido per tutta quella quotidianità distante. I lampi della semplicità.
Ho fogli per scrivere e libri da poter leggere. Li prendo in prestito, giù giù, dalla nostra piccola biblioteca in fondo al corridoio del primo piano. Tra un migliaio di volumi scelti dal nostro raffinato cappellano. E anche dal Direttore.
Scrivo ai miei ricordi di fuori, scrivo alla mia vita qui dentro, scambiandomi spesso di posto, vivendo un po’ di là un po’ di qua, mettendo talvolta le ali per andare via. Quasi sempre scegliendo di rimanere a pedinare me stesso, nel destino di pochissimi metri quadri.
All’inizio era solo una cella. Adesso è diventata la mia stanza, la mia vita, limitata, immensa, riconoscibile. Una vicinanza costruita giorno dopo giorno. Amica fraterna da vent’anni, angoscia e protezione, famiglia, casa, fine e principio di tutti i miei umori scompaginati dalla coscienza, ricomposti dal dolore. Contenuti dai silenzi concavi.
Da qui percepisco il mondo e provo a dire tutto quello che mi è sempre stato difficile accogliere o negare. Semplificando o rendendo più complesse la voglia di esistere e di lasciarmi andare.
Da qui fuggo. E qui ritorno.
Da qui vivo.