Una lettera di Nicola Merola
Cara Laura, (…) solo ora sono riuscito a leggere il tuo bel libro, che mi ha fatto buona compagnia durante il viaggio d’andata e quello di ritorno. Se ti accontenti perciò delle mie impressioni a caldo (che bella parola, con l’aria che tira), tra di esse provo a mettere ordine, a cominciare dal titolo del romanzo, che è azzeccatissimo, suggestivo e al tempo stesso tutt’altro che pretestuoso. Del resto, già a libro chiuso, persino per me, che non ci sono mai stato e non me ne sono mai interessato, la tua non può che essere La Seconda India. Poiché questo è però il vicolo cieco delle mie elucubrazioni (tra Kipling e Pasolini, senza saltare Gozzano e non senza spingersi almeno fino a Tabucchi), la faccio subito finita.
Il pregio principale del romanzo è che riesce a mettere l’una al servizio dell’altra la tenuta di una audace campata unica e l’apparente dispersione di una molteplicità di osservazioni e integrazioni enciclopediche (tali sia rispetto alle osservazioni, sia rispetto alle nozioni più banalmente accessibili), pagate all’impronta. Se ha già una sua efficacia narrativa l’incombenza della «Prima India», tra la coazione a ripetere e il presagio, capace almeno di indirizzare un personaggio in cerca di identità come Giuliano, l’amor de lonh con Anuja (che ne segue la falsariga e in sé e per sé rappresenta forse un’ingenuità, non per tutto quello che cita, ma per il poco che ne ha imparato) fa da filo conduttore e da motore immobile per un’azione che risulta appunto concepita come una quête e nella quale quindi ogni stazione raggiunta è anche una dilazione e una digressione, finché, tardivamente ma non per questo meno felicemente, con un autentico colpo di scena, proprio sullo scenario semplificato della sessualità, non prende il sopravvento un femminile ideale di accudimento, che smaschera e risana il maschilismo patologico dell’amore impossibile, spezzandone la spirale infinita e retroattivamente restituendolo al ruolo subordinato che gli competeva e al quale forse aspirava fin dall’inizio, prima ancora di Battersea e di Pushba, dalla preistoria siciliana e dagli stereotipi corrispondenti. Per restare in tema di citazioni e esagerare un po’, quasi un passaggio da Ferito a morte a Aracoeli.
Non aspetta invece la prospettiva della fine per essere messo a fuoco il piccolo prodigio grazie al quale competenze tanto astrattamente apprezzate quanto poi in concreto ridotte al silenzio, e sia per il silenziamento che per il pregio titolari di pubblicazioni specialistiche e movimentazioni politiche, declinate sul paradigma di questo attraversamento dell’India nel senso della sua profondità e sui loro “soggetti” (le donne, i bambini, i vecchi, l’alimentazione, la salute, l’ambiente, persino l’economia e la ricerca scientifica), a mano a mano rivelano di riguardarci sempre più da vicino, per lo stile oltre che per il tema, parlano la nostra lingua e difendono i nostri interessi, anche quando denunciano l’intreccio “indiano” dei delitti contro l’umanità che si commettono in nome dello Sviluppo. E qui i tuoi meriti vanno condivisi o forse proprio ribattezzati con l’attualità bruciante che stanno rivelando questioni simili anche da noi.
Va da sé che il massimo dell’intrattenimento, in un libro che si propone di ottenere un risultato diverso, corrisponde ai risvolti umoristici, macchie di colore in corrispondenza di un mondo colorato, così riuscite però da non farmi dubitare che il tuo prossimo libro sia ancora una volta capace di sorprendermi (chissà, forse proprio in questo senso). Intanto ti ringrazio, per la fiducia amichevole e la lezione, oltre che per aver alleviato le pene del mio viaggio.
Complimenti e un abbraccio.
Nicola
La lettura di Francesca Koch
Come ci avverte il titolo, l’India del romanzo è una “seconda India”, quella reale, giacché nel libro si allude anche a una “prima India”, di una comunità londinese a Battersea che sembra limitarsi ad una sorta di proiezione reciproca delle immagini stereotipate della cultura dell’altro, un tentativo velleitario di identificazione nelle esperienze e nelle emozioni di tipo diverso.
Il caso dell’India è certo paradigmatico per la sua storia e per la sua tradizione, per le forme originali della sua contemporaneità, per le grandi elaborazioni teoriche e la culturali che ci giungono; l’India offre la possibilità di incrociare una pluralità di saperi, di rileggere il passato e le contraddizioni del presente, di tenere insieme l’antica narrazione vedica e i film di Bollywood, le rivolte contadine e le proteste contro la precarietà globale dei call center delle multinazionali
[1].
Come ha scritto Homi Bhabha “vivendo ai margini della storia e del linguaggio, ai limiti delle razze e dei generi, siamo in grado di tradurre le loro differenze in una sorta di solidarietà”; l’alterità è il segno dell’impossibilità della reductio ad unum, e dell’insopprimibile relazione tra il sé e l’altro: “il nesso tradizione/traduzione diventa centrale come espressione di relazioni trans-culturali, e anche come frontiera mobile del rapporto che si intrattiene con se stessi”.
Dall’India rimbalzano domande universali, come sottolinea la stessa Laura Bocci
[2] “E dunque l’India. Perché l’India conserva la memoria della terra, del primordiale, ti riporta all’origine, e contiene tutti i modi di pensare e di immaginare il mondo: come attraversare tutti gli strati geologici della coscienza, e configurare anche l’anatomia invisibile, e fare una mappa dell’anima come descrizione dei punti del percorso interiore individuale; partire dalla necessità interiore di ciascuno e rendersi conto che ciò che gli indiani definiscono spiritualità forse non è altro che ciò che ti è interiormente necessario. In ogni caso, l’India risponde sempre con intensità all’intensità delle domande che si ha il coraggio di porre a se stessi”.
Parole analoghe aveva scritto Anita Desai: “Non era forse il modo indiano di rivelare il mondo che stava dall’altra parte dello specchio? L’India faceva balenare lo specchio dinanzi al volto, con il fulgore e il riso rauco di una banda da strada. Si poteva restarne accecati. Ma per chi rifiutasse di guardarci dentro, per chi insistesse a girarci intorno, allora l’India si tirava da parte, ammettendolo dove non aveva pensato di poter arrivare. L’India era due mondi o dieci. Essa stava dinanzi a lui, le mani sui fianchi, ridendo quel riso macchiato di sangue: scegli! scegli!”
[3]
L’intreccio tra Germania e India , essenziale nel romanzo di Desai, è presente anche nel lavoro letterario e nella stessa biografia e di Laura Bocci, come è evidente già dal primo felice romanzo “ Di seconda mano”, con una triangolazione verso il mondo culturale italiano.
L’esperienza di traduttrice caratterizza la narrativa di Laura, che è una continua opera di dialogo con gli autori e le autrici, una tessitura di riferimenti e di citazioni . Nel primo romanzo, Di seconda mano, si sottolinea la solitudine del traduttore, punto centrale di una raggiera o di una tela di ragno, mentre nel secondo libro, Sensibile al dolore, si tratta di un confronto con il Flaubert di Madame Bovary, e con George Eliot, a partire da Middlemarch; la nota bibliografica finale è poi densa di riferimenti letterari e poetici, oltre che di testi di psicoanalisi.
La passione linguistica di Laura Bocci per i dialetti e per le diverse lingue, affiora spesso nel romanzo: “Diceva, con le parole della serenata della sua infanzia:
si tu non m’ami megghiu muriri… Perché non c’è nulla come la lingua che ti riporta alle cose buone e cattive della tua vita. E lui, Giuliano Baglio, forse aveva fatto quasi il giro del mondo linguistico solo per poter tornare, alla fine, nel momento più importante di tutta la sua vita, alla lingua – sempre rifiutata – di suo padre? Ed era una sconfitta, un assoggettamento, o invece, forse, una vittoria?”
[4]
Così riaffiorano alcune immagini, quasi delle costanti nella narrativa di Laura Bocci, come queste righe sui treni di notte: “Un treno di notte è, ovunque nel mondo, una specie di grande carovana in lento movimento, alla quale ci si affida inermi come lo si è nel sonno, non vigili, e spesso immersi nei sogni. Si attraversano luoghi ignoti, nel buio, in posizione orizzontale, abbandonati: già questo rende il viaggio diverso da qualsiasi altro si compia seduti, attenti allo scorrere del paesaggio, spesso con un libro o un giornale in mano, a volte persino immersi in conversazioni – che possono diventare assai personali – con un ignoto vicino di posto, che non vedremo mai più o con il quale nascerà una grande amicizia, o magari un amore. Invece nel treno di notte si è soli, soli con il proprio dormiveglia, soli con i propri pensieri, cullati dal dondolìo e dal rumore, in una specie di stato di regressione infantile o persino fetale”
[5]
Il precedente libro di Laura Bocci scava sull’identità femminile; qui l’autrice si misura piuttosto con la ricerca del padre e la ricerca della mascolinità; ci propone un percorso sulla virilità, il romanzo di formazione di un uomo. Ricorre nel testo la definizione di ciò che caratterizza “un vero uomo, un uomo fatto”: lo è Giuseppe, il rassicurante medico amico del protagonista, lo è il marito della scrittrice Anuja: “Lui invece, il marito, rimase a guardarlo, immobile al di là del cancello, come chi di colpo capisce tutto. Uno sguardo da vero uomo, pensò Giuliano, lo sguardo che io non avrò mai”.
Sulla virilità come ideale collettivo, come invenzione culturale, come modalità di rappresentazione dell’identità degli uomini che si propone come norma universale, nei suoi legami con l’autoritarismo, la gerarchia e l’ordine sociale si interroga oggi
la storiografia (Sandro Bellassai) ma anche la psicoanalisi (Massimo Recalcati e Luigi Zoja) l’antropologia (Franco La Cecla) oltre ad associazioni come Maschile Plurale.
Il protagonista del romanzo, Giuliano Baglio è un uomo che a 46 anni non si è mai misurato con una relazione sessuale o amorosa. Egli non è tuttavia “un maschio senz’anima”, poiché ogni tanto è in grado di ascoltare una voce interiore, una sorta di inquieta coscienza critica che lo sospinge.
I personaggi sono organizzati in una serie di relazioni e gradazioni: le figure della mascolinitàvannoda quella forte e sicura di Giuseppe, di Vikram, del marito di Anuja, fino a quella attenuata di Giovanni e a quella, ancora da definire, di Giuliano
Anche le figure della paternità sono viste nelle diverse gradazioni: la coppia aperta di Battersea è il contrario della rigida e oppressiva coppia genitoriale di Giuliano; anche la stessa dimensione delle paternità di Giuliano, da quella simbolica per Parvena e il figlio, a quella biologica e reale, ma inconsapevole e ignorata, sono altrettante sfaccettature della sua personalità ancora in divenire.
La stessa varietà è nelle figure femminili che popolano il libro: Johanna è la donna realistica e materna, la scrittrice Anuja, vissuta come seduttrice, si percepisce poi soprattutto come madre, la altruista e generosa Vandana, la psicoanalista Anita, le donne della cooperativa agricola sono diverse espressioni delle realtà femminili. Tra queste Sukama e sua madre, la vecchia Chandhramma, narrando della cooperativa femminile dell’Andra Pradesh sembrano usare lo stesso linguaggio di Ela Bath, la mitica fondatrice di Sewa (
Self employed women association), il sindacato delle donne di cui parla Mariella Gramaglia in “Indiana”. Esse potrebbero sottoscrivere quello che Ela Bath dice a Mariella Gramaglia, spiegandole perché ha lasciato volontariamente la guida del sindacato: “del resto, chi è un leader se non fa crescere altri leader? Io non ho perso nulla. Poi certo conta la mia visione della vita. Per me il lavoro è il punto cruciale,la vera nobiltà di ogni vita. Anche Dio lavora. Secondo lo stesso principio del sole: il sole scalda, l’acqua produce le nuvole, cade giù la pioggia, crescono le coltivazioni e il primo gruppo di spighe vene offerto nei templi. Così accade da sempre, anno dopo anno. Ogni cosa che la natura dà, va restituita e curata. Se abbiamo più di quello che ci serve, non è karma, ma nutrimento del peccato. La semplicità è il più alto valore”
[6]
La struttura della narrazione prende il via dalla fiammata bianca delle prime righe, e dal corto circuito iniziale si dipana un intreccio di tempi narrativi,di memorie interiori e di echi delle tradizioni antiche. Ma dall’esplosione prende il via anche una persistente serie di opposizioni: tra fatalismo e modernità, per dichiarare “tutta la sostanziale inutilità e vanità degli sforzi umani, in qualsiasi direzione essi vadano. Specialmente in India”
[7]; tra medicina tradizionale e medicina occidentale; tra letteratura epica e romanzi attuali, con la citazione esplicita del romanzo di Anita Nair,
Padrona e amante, dovel’intreccio tra narrazione epica e romanzo moderno è evidente nel kathakali, il teatro-danza che mette in scena le storie della mitologia divina. Secondo i registi di Bollywood, sono solo due storie nel mondo, il Ramayana e il Mahabarata: il kathakali mette in scena alcuni passaggi del Mahabarata, e, nel romanzo di Anita Nair cui fa riferimento Laura Bocci, c’è anche, insistente, il tema dell’identità maschile: cosa vuol dire essere un uomo, oltre le maschere della società e dell’arte? Se lo chiedono l’attore, il medico, l’imprenditore.
Scorrono in questo libro, anche le storie di amori tanto intensi, quanto impossibili, non solo per i veti della tradizione, ma anche per l’impossibilità appunto di traghettare il proprio mondo in quello dell’altro e di farli convivere all’interno della relazione; quell’amore impossibile che imprigiona in una ossessione Giuliano rendendolo straniero (firanghi) a se stesso: “Forse amo l’assenza, so vivere solo nell’assenza: mi fa stare male, però allo stesso tempo mi fa anche sentire vivo, mi fa continuamente desiderare la presenza. Che ne dice la mia psicoanalista preferita? …
Ma va’, non ti prendere tanto sul serio! Non sono scisso più di te, più di chiunque: solo che non lo nascondo dietro le convenienze, dietro i comportamenti richiesti, i codici. Ormai sono
firanghi ovunque, lo vedi da te”.
[8]
Sono narrati diversi tipi di amore: la coppia Vikram e Anna mette in atto “la cosa più insperata e difficile in India: un matrimonio d’amore intercasta”. Quando Giuliano li aveva conosciuti era stato affascinato dalla loro storia, era diventato loro amico, e attraverso di loro era entrato ancora un po’ di più in India: l’India delle tremende contraddizioni, delle superstizioni medievali, delle pratiche barbariche, e insieme dei più straordinari cambiamenti e rivoluzioni, operati da eroi ed eroine qualunque. Nella storia d’amore tra Anita e Giuseppe , Giuliano legge un’altra possibilità: “Così aveva avuto la possibilità di osservare da vicino e con grande attenzione ciò che lui non aveva né avrebbe mai avuto: una relazione adulta, matura, equilibrata, tra due persone che forse non avevano mai sperimentato un amore-passione come il suo – furioso e devastante quanto doloroso e probabilmente del tutto inutile – ma che si volevano bene e si desideravano;e che condividevano – no, forse non l’
anima, che era quello che, con una donna, avrebbe voluto invece condividere lui, pur senza saperne bene definire la forma e i confini – ma molte buone cose e sentimenti, interessi, progetti e forse sogni. Anita e Giuseppe rappresentavano quella buona e fertile normalità che, se si è fortunati e intelligenti, si può costruire insieme a un certo punto della vita: ma, per farlo, serve proprio quello che io non ho – si diceva spesso Giuliano: un buon equilibrio affettivo, solido e sicuro; una vera nave, in sostanza, con un grande ponte di comando, e infinite scialuppe di salvataggio, tutte pronte all’emergenza: non una barca sbilenca come la mia, che pende costantemente”
[9]
Ma Giuliano è affascinato anche dai fantasmi d’amore: “Gli Indù pensano che gli amori infelici, non vissuti, sono gli unici amori veri, i soli che abbiano un reale valore: col tempo, essi si trasformano in fantasmi e ci restano sempre accanto,
ci accompagnano tutta la vita e continuano per sempre a parlarci di noi. Gli amori felici, invece, scompaiono rapidamente dalla nostra memoria, e quasi non lasciano traccia di sé. Gli amori felici, in sostanza, non valgono nulla.
Se le cose stanno davvero così, allora quello di Giuliano per Anuja era un amore di inestimabile valore”
[10].
Nell’episodio culminante dell’aggressione, i temi del romanzo si compongono come una sinfonia: la virilità, il dominio e la distruttività, l’interrogativo sull’amore.
Parafrasando Christa Wolfsi potrebbe dire che finalmente in Giuliano nasce una consapevolezza: tra i diversi modelli maschili, tra la possibilità di subire o di dominare, si fa strada un’alternativa che consiste nell’ amare: “ si trattava di imparare a subire: forse doveva farlo, visto che non aveva mai imparato, da uomo, a dominare, come sarebbe stato nell’ordine delle cose umane più consuete e come era sempre stato. Ma, del resto, non aveva mai imparato a essere un
vero uomo, come per lui avevano tanto desiderato sua madre, la muta, spaventata professoressa di matematica, e suo padre, sopra la cui testa aleggiava angosciante il fantasma del padre del Bell’Antonio
. Ma quell’idea – diventare un vero uomo – gli era rimasta sempre lontana, estranea, ignota. Ora però doveva decidere dove andare, scegliere in quale direzione, altrimenti la sua vita sarebbe rimasta per sempre un limbo solitario e disperato
. E lui ormai aveva capito che amare è più importante che essere amato”
[11]
Ed è quindi la figura di Johannache rende questo libro così distante dalla visione amara di Anita Desai in Notte e Nebbia a Bombay, che rende possibile una diversa relazione tra un uomo e una donna, basata non sulla forza o sul dominio, ma piuttosto sulla verità di se stessi e sulla materialità della propria esistenza:
La sapienza di Johanna consiste nell’aver “imparato da tempo che nella vita conta solo quello che accade davvero”, e nella conseguente capacità di verità: “Non ci furono discorsi impegnativi né grandi promesse, quando, più tardi, finalmente si guardarono negli occhi e si parlarono un poco, non molto; ma per lui fu come dire, con poche parole, la verità fino in fondo, perché in qualche modo era certo che lei non avrebbe approfittato della propria forza di quel momento: e anche se Johanna non poteva sapere, né tantomeno essere certa che quella era per lui la prima volta che faceva l’amore, in qualche modo comunque lei lo sapeva; sapeva che lui aveva aspettato sempre, fino a quel momento, di poter iniziare a vivere; e che ora finalmente aveva iniziato”
[12].
[1] cfr. Luca Cangemi,
L’elefante e la metropoli. L’india tra storia e globalizzazione, ed. Dedalo, 2012
[2] Laura Bocci,
La seconda India, Manni, 2012, p.74
[3] Anita Desai,
Notte e nebbia a Bombay , Einaudi, 1999, p97
[4] Laura Bocci,
op.cit. p. 161
[5] Laura Bocci,
op.cit. p. 181
[6] Mariella Gramaglia,
Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo , Donzelli, 2008 , p. 60
[7] Laura Bocci,
op.cit. p.180
[8] Laura Bocci,
op.cit. p.224
[9] Laura Bocci,
op.cit. p.220
[10] Laura Bocci,
op.cit, p.226
[11] Laura Bocci,
op.cit, p. 258
[12] Laura Bocci,
op.cit, p. 256