È difficile per me presentare un libro. Lo è per la semplice ragione che non ne ho alcun titolo. Se non quello di essere un lettore, magari appassionato, ma pur sempre e solo lettore. Amo la narrativa e trascorro buona parte del mio tempo libero in libreria a cercare novità letterarie e le più recenti proposte. Saranno questi titoli sufficienti? Non credo proprio, ma tant’è.
Per questo, quando mi hanno proposto di venire qui a Belgioioso per partecipare alla presentazione di Lampi di buio, ho reagito inizialmente in modo negativo. Non conoscevo Roberto Curatolo e inoltre non sono molto attratto dai libri di racconti.
Mi hanno però detto che Curatolo è un medico. Questa circostanza mi ha incuriosito. Ho pensato ai tanti, importanti, affermati scrittori-medici della storia della letteratura e a narratori dei nostri giorni, pure lombardi, che confermano una tradizione. Il legame con Giuseppe Pontiggia, di cui Curatolo è stato allievo, ha fatto crescere la mia curiosità.
E poi la Casa Editrice che ha pubblicato il testo di Curatolo rappresenta per me un duplice richiamo, sia per essere una casa editrice non grande ma con un forte impegno culturale e sociale, sia perché porta con sé i colori e i profumi della terra in cui sono nato.
Per superare ogni dubbio, mi sono fatto mandare il libro. E ne ho iniziato la lettura. È stata subito coinvolgente, pagina dopo pagina mi sentivo attratto. Leggo di solito più libri contemporaneamente, ma ho sospeso la lettura degli altri per dedicarmi unicamente a Lampi di buio.
Mentre procedeva la lettura, diminuivano le perplessità sulla mia partecipazione all’incontro di oggi. Ho capito, infatti, che non si tratta di una raccolta di racconti slegati e indipendenti, con percorsi separati e con logiche differenti. I racconti di Curatolo, tenuti insieme dal numero tre, sono legati l’uno con l’altro. Vi è tra loro un filo o più fili conduttori, che non danno al lettore l’impressione di saltare da un episodio all’altro, ma è come una strada che non s’interrompe mai tra un lampo e l’altro. Sempre, però, nel buio di storie umane difficili, dure, forti.
Il filo conduttore può essere certamente il senso di solitudine di alcuni protagonisti, il senso di estraneità rispetto a una società che ha logiche e dinamiche incomprensibili e distanti, ma può essere anche la ricerca ossessiva, spinta fino all’estremo, della felicità, della verità, della giustizia.
Sono racconti mai banali, che lasciano tracce profonde, che scrutano, indagano e invitano a riflettere, a pensare, e danno spesso una scossa improvvisa, non lieve, al lettore. La vera realtà del racconto emerge in molti casi con una frase breve e netta, che ha l’effetto di una stilettata.
Curatolo è un bravo narratore. Ha il dono della scrittura facile, semplice e diretta. Non gli occorrono molte parole per descrivere un luogo, uno stato d’animo, una persona, un’impressione, una situazione. Tra gli scrittori che con poche parole aprono scenari e descrivono il quadro in cui si svolge l’azione – come Leonardo Sciascia – e quelli – penso a Somerset Maugham – che fanno ciò con numerosi dettagli e frasi costruite con stile ed eleganza, mi pare che Curatolo si collochi più nella prima categoria.
Vi è poi una grande fantasia, una ricchezza di trame e di storie. Sì, perché, se è vero che i ventisette racconti appaiono legati da un filo invisibile, è anche vero che ogni episodio ha la dignità di una storia a sé stante, differente dalle altre, da quella che precede e da quella che segue. Ecco, mi pare che Roberto Curatolo abbia la vena del vero narratore, come se possedesse un’inesauribile possibilità di rappresentare personaggi e situazioni. Ricco, per questo aspetto, come quel grande Georges Simenon, che personalmente ho di recente riscoperto e apprezzato.
Se ben si riflette, ogni racconto – per la ricchezza della trama e delle situazioni – sarebbe, da solo, la base di un libro. Basti pensare a quanti straordinari personaggi Curatolo inventa e fa vivere. Personaggi, qualche volta, dolci, poetici, anche, ma con storie tristi e dolorose. Mi vengono in mente Menta, Rosetta, il giustiziere, l’uomo che guardava la vetrina (e impauriva la figlia, lui uxoricida), Osvaldo (il desaparecido), Fortunato (il lettore), Tilli (la pittrice) e quel Vincenzo Scopelliti, che “stava in punta di sedia, con le mani tra le cosce, la testa china, e non parlava più”, dinnanzi ai Carabinieri, guardava verso Sud, verso casa.
Proprio il personaggio di Vincenzo Scopelliti, uomo del Mezzogiorno, bracciante, che lavora e lotta contro i privilegi, che suda per far studiare i figli e poi li perde perché vanno al Nord, ci aiuta a comprendere che Curatolo non racconta solo storie di uomini, ma descrive anche una società in momenti e periodi storici diversi. E ogni storia sofferta, non è solo sofferenza e ansia dei protagonisti, ma malessere della società, disagio, povertà, anzi è proprio la società a produrre, a contribuire a creare e ad alimentare la sofferenza, il tormento, la diversità e quel buio che pervade le varie storie.
La storia di Scopelliti è la storia di tanti uomini del Sud e del Sud stesso, della miseria, delle disuguaglianze sociali, dei latifondi, dell’emigrazione, delle famiglie divise. E fa pensare al dolore che prova chi lascia la propria terra per cercare in altri luoghi, magari stranieri, condizioni di vita migliori e più umane. E’ la storia delle tante emigrazioni, anche quella – spesso non capita, anzi temuta – di coloro che oggi arrivano in Italia. Il nostro Paese si dimostra immaturo nell’affrontare un fenomeno sociale che ha interessato in passato proprio gli italiani, come i figli di Vincenzo Scopelliti. Ma lui, Vincenzo Scopelliti, fermo sui binari, è rivolto verso Sud, verso la sua Calabria, dove vuole tornare. E ci insegna, con semplicità, che nessun uomo abbandona volentieri la propria casa e i propri affetti, ma quando ciò avviene, vi sono comunque lacerazioni, dolori, tristezze.
La condanna del fascismo e i mali della dittatura sono esemplari nel racconto “Il mare di Rosetta”, nella triste storia d’amore e di guerra del giovane soldato e nella vicenda del giustiziere che uccide il padre della donna che amerà. Storie tra loro intrecciate sullo sfondo di un periodo buio e fosco del Paese, nel quale gli episodi raccontati da Curatolo appaiono il frutto della negazione della democrazia e delle libertà sociali e personali.
Così pure mi sembrano dipinte nel buio le storie del terrorismo. Altra pagina di morti, di dolori e di sofferenza per il Paese. Chi aderisce alla lotta armata non sarà più libero, sarà sempre prigioniero delle sue colpe e di quella detenzione in carcere che ti resta appiccicata addosso come una seconda pelle. Vi sono altri modi, in democrazia, per chiedere più giustizia, più equità, o più semplicemente per far valere il proprio modo di intendere la società. L’alternativa è quella indicata da Curatolo con la figura del terrorista che fugge sempre e che tenta di liberarsi del passato attraverso il pentimento, ma così ricade in altri laceranti e profondi sensi di colpa destinati a non essere superati. C’è dunque buio e non luce. Ma bisogna chiedersi, come cittadini e come soggetti sociali, se si è fatto tutto per evitare che ciò accadesse. E se chi ha o ha avuto responsabilità di governo, ha saputo prevenire fenomeni sociali, criminali e politici, che vanno forse affrontati in uno sforzo di comprensione con l’arma del dialogo e del confronto, e non con quella del dissenso pregiudiziale e aprioristico.
Mi ha colpito la storia della “Menta” e del profumo candido della biancheria da lei lavata per i signori. Era il dopoguerra e Curatolo parla di un’Italia lacerata dalla guerra, ma più semplice e solidale. Emerge qui il tratto della solidarietà umana e sociale, che trova le sue ragioni in una stagione di lutti e di povertà che si spera non torni mai più. Ma quelle ragioni non vanno dimenticate. Oggi il Paese è diverso. Siamo molto meno solidali. Viviamo in una società egoista in cui prevale la cura degli interessi individuali e non si è disponibili a sacrificare qualcosa per gli altri. Il vincolo che tiene unita la società rischia in tal modo di attenuarsi, sino a sciogliersi del tutto, se non si riscopre il valore e l’importanza della solidarietà, che non vuol dire fare semplicemente del bene, ma avvertire il senso dello stare insieme e del vivere in una collettività unita. Anche una società ricca e benestante, ma con sacche di povertà diffuse e sommerse, deve farlo se vuole costruire un futuro equilibrato in cui diritti e doveri vengano rispettati e dove i poveri siano meno poveri.
Vi è poi il tema spinoso sempre, purtroppo, d’attualità che riguarda le cosiddette diversità, o meglio quelle situazioni che una parte della società, che si autodefinisce normale, ritiene diversità. Curatolo tratta l’argomento con apparente leggerezza e non affronta direttamente la questione sociale, ma dipinge due quadri umani che proiettano il lettore nella dimensione del diverso con un notevole carico di interrogativi. Lo sciancato zoppo “con quel femore fuso nel bacino” che si innamora e vuole guarire. Si illude di poter diventare “normale”, ma colleziona un’ennesima, terribile delusione. Gli resta l’amore della sua donna e la gioia comunque di vivere. “Ti voglio bene così come sei” gli dice la Gianna e in queste parole è racchiuso il senso della diversità non accettata da una società conformista che vede e guarda con occhi miopi.
Infine uno squarcio quasi esilarante, comico e grottesco, costruito su una vicenda umana amara di una presunta – anche qui – diversità. L’amore in questo caso non rompe il velo del conformismo. E’ il conformismo di un padre che per tutta la vita ha rifiutato il figlio omosessuale, negandogli l’affetto, la vicinanza e il dialogo. Poi il padre muore e il figlio va in obitorio a trovarlo, Dinnanzi al corpo senza vita del genitore, finalmente parla, si apre e dice al padre le cose che per una vita non era riuscito a dire. Ma aveva sbagliato morto. La salma con la quale aveva parlato non era quella del padre, ma di un’altra persona. L’incomunicabilità resta anche dopo la morte. È geniale e intelligente il racconto di Curatolo, giocato sul paradosso che aiuta a capire. Il figlio non riconosciuto dal padre in vita, non riconosce a sua volta il padre morto. È una lezione estrema per un genitore ottuso e chiuso nel suo perbenismo. Il messaggio di Curatolo è chiaro: non esistono le diversità, esistono invece, ancora oggi, barriere culturali, sociali e umane.
Lampi di buio è un libro triste, aspro, duro, con le storie di sofferenza e di disagio che lo animano? Me lo sono chiesto alla fine della lettura. Forse lo è. Ma con la sua durezza e la sua forza, colpisce bene l’immaginario del lettore e ne scuote l’animo.
Mi pare che l’obbiettivo letterario e sociale di Roberto Curatolo sia stato ben centrato. E, in definitiva, vi è anche da dire che quella tristezza, quella malinconia, quella disperazione che aleggiano un po’ sempre nei racconti, vengono superate da alcune frasi quasi nascoste dall’autore, ma ben presenti, che sono inviti alla speranza, alla felicità, alla bontà. Non è insomma, tutto buio, ma possono esserci anche squarci di luce nelle vite più estreme. Curatolo mette tutto ciò in bocca ad Alfonso, il poeta sudamericano del primo racconto, quando dice: “La poesia! La poesia mi ha aiutato a non morire. E non solo la poesia dei versi, lei mi capisce. Parlo della poesia che c’è nelle cose… nei fatti… e, perché no, talvolta anche negli uomini.”