L’angelo dalla faccia sporca
Ho provato a ricordare – con la suggestione tattile del bambino che colleziona figurine e con la consapevolezza dell’adulto che prova a narrare – la più grande storia d’amore del calcio italiano.
Per Manni ha curato Che canti! Il mito di Ernesto Guevara nella musica italiana (con Paola De Simone, nel 2007).
Questo è il suo primo libro di argomento non musicale.
Non amo il calcio. Trovo che ci siano molte esagerazioni. Non frequento stadi, non sono possessore di abbonamenti tv, non seguo nemmeno la Nazionale o i Mondiali e, quel che più mi preoccupa, sono invidioso dei calciatori, della loro popolarità e dei soldi che guadagnano. Riconosco appena Totti e Del Piero, a cui darei uno stipendio sociale di mille euro al mese, che è più o meno ciò che guadagna la grande maggioranza dei loro sostenitori. Detesto i tassisti che ci costringono ad ascoltare per ore e ore le loro trasmissioni radiofoniche a base di calcio. Sono trasmissioni rivoltanti, in cui tutti, conduttori e ascoltatori, si esprimono in dialetto, un vernacolo incomprensibile e volgare. Trasmissioni fatte di niente, solo di ipotesi e congetture, senza ospiti, senza notizie, senza scoop; solo telefonate, in cui, a loro volta, gli ascoltatori si abbandonano ad altre ipotesi e ad altre congetture. Occupandomi di radio e di musica, impazzirei per poter fare un programma musicale solo di congetture, limitandomi alle mie ipotesi. Zero notizie, zero ospiti, solo voli aleatori. Forse non sarebbe nemmeno un cattivo programma, però nel frattempo sarei stato sicuramente cacciato.
In sostanza trovo che il calcio rappresenti un autentico degrado della società, non tanto da parte dei calciatori, professionisti-mercenari che fanno il loro lavoro a testa bassa, quanto da parte dei gonzi che mantengono tutta la baracca, ovvero i tifosi. Come spesso succede ai grandi inquisitori, anch’io ho le mie colpe. La principale fra queste colpe riguarda il furore collezionistico che ha sempre caratterizzato il mio tempo libero, sia nell’infanzia che nella maturità. Colleziono un mucchio di cose, che si fondono con le mie passioni ma anche con il mio lavoro, fra cui dischi, libri, fumetti, bolo-tie (la cravatta-laccio stile western) e figurine. Sì, figurine. Prevalentemente di spettacolo – le migliori sul piano dell’immagine sono le “fustellate” e “pastellate” della prima metà degli anni Cinquanta – e anche di calcio. Quest’ultime soprattutto per gli scambi, visto che nell’universo-figurine vige il baratto piuttosto che la compra-vendita in denaro. Ciò perché la domanda è più forte dell’offerta, senza che questo abbia accresciuto il decoro e il peso dei collezionisti di figurine all’interno dei raduni di appassionati. Noi collezionisti di figurine siamo sempre i fratelli poveri, ci si riconosce, ci si annusa, e si partecipa a questi “poll” con il “pezzo in mano”, come si dice in gergo, ovvero senza poter disporre di uno stand espositivo. Una vitaccia. Per non parlare degli equivoci e delle ambiguità. Le figurine sono un oggetto legato all’infanzia e qualche volta la terminologia è la stessa che si usava allora, però a cinquant’anni o più può diventare imbarazzante. Capita, oggi come allora, di arrivare a dire, per eccesso di possesso, “sì, te lo faccio vedere, ma in mano mia”, ovvero il più autoritario diniego di un bambino nei confronti di un calciatore importante in una figurina posseduta da lui e non da altri, desiderosi almeno di guardare. Oppure, passare giorni interi a spulciare annunci su giornali improbabili di qualche città lontana, trovare qualcuno che dismette collezioni (quasi sempre cantina o soffitta di qualche congiunto deceduto con erede non collezionista), reperire il numero di telefono, fiutare il colpaccio, chiamare verso sera e sentirsi rispondere con aria supponente: “Figurine? Aspetti che le passo mio padre.”
Angelillo, fin dal suo primo apparire in figurina nella stagione 1957-1958, in tutte le varie edizioni (Stadio, Tuttocalcio, Lampo, Nannina e Vav), con la maglia dell’Inter a fascia larga e con i baffi argentini, è sempre stato una figurina rara. E questa è la prima stranezza. Nella storia delle collezioni di calcio è difficile che una figurina-chiave riguardasse un campione, un grande goleador, un protagonista del campionato. Le figurine-chiave, quelle che permettevano di completare l’album, riguardavano quasi sempre calciatori non popolari. Furono figurine introvabili, in varie epoche, Roncoli, Brizi, Bandoni, Lo Buono. Qualcuno ricorda questi calciatori? Si può fare un’eccezione per Vivolo, sempre rarissimo, che fu buon centravanti negli anni Cinquanta nella Lazio e nella Juventus. In fondo anche la vicenda di Pizzaballa, portiere dell’Atalanta degli anni Sessanta, deve considerarsi una mezza panzana. Nessuno fra i tanti giornalisti sportivi che hanno scritto e continuano a scrivere di lui, ha mai collezionato figurine. Faceva ridere il nome e forse anche il fatto che ad un certo punto venne acquistato dalla Roma. A Pizzaballa capitò anche di fare qualche uscita avventata e fortunata e di parare con il sedere. “Il Tifone”, una testata sportiva che univa il gusto per la satira illustrata alle informazioni tecniche, pubblicò un disegno con la scritta: “Pizza… come ti balla!”, con il colpo di anca che metteva in out il pallone. Però era un bravo portiere. Ma Angelillo fu il primo asso introvabile e i più industrializzati fra noi, ancorché privi di Photoshop, stanchi di non trovarlo mai in bustina, si organizzarono con versioni taroccate. Dimenticando i baffi. Tutto questo fece di Angelillo il mio calciatore preferito. E qualche volta mi capitò addirittura di averlo come doppione. Campione lo è stato veramente.
La sua vicenda rappresenta qualcosa che racconta l’Italia, quella in attesa del boom economico, dove il fascio di cambiali si firmava allegramente per la prima utilitaria, anche se molti padri di famiglia lo facevano indossando un cappotto rivoltato. Il calcio di allora era molto diverso da quello di oggi. Per i campioni ma anche per le squadrette, per chi giocava all’oratorio o per la strada, in quelle interminabili partite che potevano finire anche 48 a 31. Si inseguiva una palla ma anche un sogno. Ora si insegue solo un obiettivo.
Nell’Italia della seconda metà degli anni Cinquanta il talento di Antonio Valentín Angelillo rappresenta un dato certo, una fortuna acclamata, un mito in formazione. Quando la “faccia sporca” più geniale si innamorò, improvvisamente, si spostò la barra della sua carriera e della sua vita. Oggi i calciatori non fanno mistero delle loro conquiste, delle prodezze sessuali, distruggono automobili e nuclei familiari. Sono scavezzacolli professionisti, ma non hanno più un’anima. Uno di loro addirittura collezionava e appendeva le mutande stracciate delle sue amanti. Oggi è una figura malinconica, ex di tutto a soli 35 anni.
Angelillo non era preparato alla sua grande storia d’amore. Lo erano ancora meno il suo presidente, l’allenatore, i compagni di squadra, i tifosi. Gestì tutto come poteva. Cioè male, con la testa di un ragazzo di vent’anni che guadagnava cinque milioni l’anno quando un appartamento ne costava mezzo. Nulla rispetto agli ingaggi di oggi, ma quanto bastava per mandarlo fuori di testa. Talentuoso, ricco e innamorato. Una miscela esplosiva. Oggi come allora.
Ho provato a ricordare – con la suggestione tattile del bambino che colleziona figurine e con la consapevolezza dell’adulto che prova a narrare – la più grande storia d’amore del calcio italiano. Una storia d’amore troppo presto dimenticata, grazie al fair play dei protagonisti, ma nobile e bella, che forse avrebbe meritato maggior rispetto. Oggi, non solo nel calcio, non va di moda l’amore, ma il discorso sull’amore. È diverso. Le mode non sono fatte di realtà, son fatte di carta, di idee, di casualità o di interessi. E la cultura non sempre serve il reale: molto più spesso se ne serve.
Ho evitato di proposito di incontrare Angelillo. Sarebbe scattato un rapporto personale, umano, in cui, quasi sempre, a rimetterci è il narratore, “costretto” a tenere presente la verità del protagonista, che in fondo non ha chiesto di esser narrato. Sarebbe venuto fuori un altro libro. Forse un reportage-verità, una lunga intervista, “la vera storia di…”. Onestamente non amo quel tipo di ricostruzioni, in cui l’autore è quasi sempre in ginocchio, rinunciando deliberatamente a ciò che non deve perdere mai, la libertà.
Antonio Valentín Angelillo è oggi un signore settantaduenne, benestante, con due figli sistemati, tranquillo, fuori dalla mischia. Ha scelto di vivere ad Arezzo, la città sede di una delle ultime squadre che ha allenato, e non si vede mai in giro. Ai salotti televisivi ha preferito la quiete di una città d’arte, assisa, autorevole ma popolare. Anch’io ho usato la stessa arma della discrezione, preferendo non disturbarlo. Certo, ho corso dei rischi. Non sarà d’accordo su diversi punti, su svariate interpretazioni, forse troverà troppo fantasiose certe valutazioni, ma fa parte del rischio. Anche per lui nutro invidia. Oggi di professione fa l’“osservatore”, una definizione che mi eccita solo a nominarla. Anch’io vorrei fare l’“osservatore” a fine carriera. In fondo, per dirla con Alberto Moravia e con il suo sottovalutato romanzo L’uomo che guarda, ad osservare c’è sempre tempo. Appunto.
La vicenda di Antonio e Ilya dimostra che in fondo l’amore è asociale, porta a un estraniamento totale dal resto del mondo, rende l’innamoramento inutile alla società. Il sesso, salvo i casi patologici, è integrato, rende la persona come ubriaca: la mattina dopo la sbronza è di nuovo lì. E se si deve scendere in campo in calzoncini possono essere dolori.
d. s.