L’autostrada
C’è l’assillo di un gioco vitale imparato e perduto, senza riuscire né a desiderare né ad apprendere un altro qualsiasi di quelli offerti dal mondo d’oggi.
Walter Pedullà
Prefazione
Debenedetti mi aveva parlato di Peppino D’Alessandro prima di quell’anno. Era stato lui a presentarmelo come professionista – il poeta era un bravo medico – e come medico era uno che proficuamente dedicava ogni tempo libero, magari anche la notte se urgeva il desiderio di scrivere, ai versi. Questi naturalmente erano in incubazione anche mentre curava le sofferenze dei suoi malati: nei quali nel suo caso specifico il dolore è pure doglia. Ha sempre fatto il medico in modo egregio, per testimonianza, oltre che mia, di tutti i suoi più illustri pazienti che a lui si rivolgevano per consigli e terapie fisiche e psicologiche. Era un paziente ascoltatore ed era un consolatore di persone turbate nell’anima non meno che nel corpo. La sua complice tranquillità già da sola era medicina e acqua santa.
Debenedetti, Caproni, Macchia e tanti altri uomini di lettere furono sempre più convinti e motivati nel consenso alla poesia del giovane medico e amico. Lo si constatò con l’introduzione di Caproni a Il tamburo di sabbia, dove il grande poeta, procedendo per citazione di componimenti, cerca e trova “il meglio della sommessa poesia di D’Alessandro”. Cito anch’io: “Una poesia, in apparenza, labilissima nel suo elementare alfabeto di minuscoli eventi quotidiani, ma tenace invece, e resistente all’abrasione della lettura, non meno delle filiformi linee di certi fanciulleschi graffiti, cui non bastano le intemperie a vanificarne il tratto”.
Ho conosciuto insieme il medico e il poeta, come è giusto che succedesse in un uomo di semplicità mista a candore che non aveva né doppiezze né sdoppiamenti. Da allora frequento l’uno e l’altro, alternando un discorso su qualche mio malanno con quello sulla poesia, sulla sua e su quella degli altri, che Peppino legge per ammirarli e per non imitarli. Sapeva bene che il problema è trovare immagini che nessuno aveva visto e ritmi che nessuno aveva suonato. È sempre in stato di disponibilità dinanzi agli eventi nuovi e alla ricomparsa inattesa o cercata dei ricordi. E così è pronto a reagire alle iniziative della vita che gli si para davanti, per ricondurre ogni emozione al presente, il tempo di uno che non vuole perdere i contatti col passato, la madre, la Puglia, il mare dell’infanzia.
Estraeva dall’esperienza il verso con cui colpire il bersaglio messo a nudo: una descrizione, un concetto, un sentimento che non si trovano in altri libri. E ne ha messi insieme tanti da farci un’antologia con cui dimostrare che non aveva sprecato il tempo dedicato ai pazienti inseguendo parole. Non diciamo quali sono i migliori: talvolta sono i più elementari e dimessi. Tra i versi più “devoti” ci sono quelli che Giuseppe D’Alessandro ha dedicato a Giorgio Caproni, quando in Velocità di sedimentazione ha illuminato la figura di un poeta col quale condivideva analoga unità di uomo e di artista. Uomini di parola entrambi: mai che la scrittura non rispettasse gli impegni presi con le regole della lealtà e della solidarietà con le persone di tutte le classi sociali e di tutte le età. Caproni era più felice di stare insieme con gli scolari delle elementari che con gli studenti universitari.
Recensendo nel 1978 Mare lungo, ho segnalato l’insistenza della polemica contro la civiltà industriale: è l’altra faccia di quella nostalgia della società contadina, che non abbandona mai il suo cuore, parola oltremodo cara alla mente di Peppino. Non è un termine tecnico da cardiologo, bensì l’organo con cui si batte il tempo dei sentimenti: che per Peppino D’Alessandro sono quasi tutti in poesia, anche se li smorza perché non tracimino.
Nell’articolo ne registrai il più acuto: “Direttamente o indirettamente ma costantemente rode il rimpianto di un mondo contadino dove il tempo pare fermo o sembra scorrere lentissimo e dove il cuore fa pensare non agli infarti ma alla solidarietà umana e alla semplicità degli affetti”.
In quanto ai meccanismi della memoria distinsi: “Alcune volte il ricordo si impone come felicità, sia pure brevemente, recuperata; altre volte è ‘corrotta’ dalla coscienza di un impossibile ritorno, o, ancora peggio, dalla paura, sempre più consapevole che quel Sud è irrimediabilmente scomparso”. Sul volume della voce di un poeta che chiaramente metteva il silenziatore al dramma constatai: “Nulla però di urlato e di scomposto. La temperatura è abbassata dalla rassegnazione e dall’ironia, e i ritmi battono il tempo di una dignitosa malinconia più che della disperazione. Su quella malinconia può fiorire una sorridente arguzia, un penetrante spunto polemico, una sfrangiata e risentita descrizione”. Cosa c’è insomma alla base della poesia di D’Alessandro? “Sotto c’è l’assillo di un gioco vitale imparato e perduto, senza riuscire né a desiderare né ad apprendere un altro qualsiasi di quelli offerti dal mondo d’oggi”.
In occasione dell’uscita del Tamburo di sabbia, scrissi una nota che sono andato a rileggermi per vedere se qualche idea funziona ancora per capire. Forse questa: “Peppino D’Alessandro sa bene che bisogna trovare le parole giuste e insieme eccezionali per fatti molto comuni: o magari il contrario. Che è il caso suo. D’Alessandro infatti usa parole comuni per creare un fatto eccezionale, quali in sostanza diventano nei suoi versi eventi quotidiani e persino inflazionati come la nascita e la morte”.
La sua nostalgia del mare? Mi parve che egli “nuota più a suo agio nel liquido amniotico: pure lui pesce che apre e chiude la bocca e urta a ogni istante al vetro spesso della pancia”. D’Alessandro “finisce sempre per ricondurre allo schema essenziale degli eventi naturali anche gli avvenimenti e i costumi dell’attualità e della storia”. Per trovare la via che lo guida a un’idea che sembri nata allora “non usa il forcipe né il taglio cesareo della più avanzata chirurgia sperimentale questo ginecologo – è questa la specializzazione di D’Alessandro – che fa nascere le poesie quando sono mature per affrontare la vita e il lettore. Spesso nascono con molto dolore ma naturalmente”. Il linguaggio è scientifico, privo di affabulazioni o di magie.
Fatta esperienza della vita anche attraverso la scienza, avrebbe preferito non venir fuori dal ventre della madre e restare nel liquido amniotico muto come un pesce? Sono numerose le volte in cui il poeta celebra il silenzio e coerentemente sono molto rare le parole che ha voglia di pronunciare, se non indovinano il senso e la musica. La poesia come genere letterario in cui si dicono solo le parole che non possono non essere dette? Quelle scritte per la madre morente generano immagini nitide e lancinanti che rompono il vetro per gelare o riscaldare il lettore.
Anch’io come Debenedetti, Caproni e Macchia ho sempre ammirato la discrezione timida, la tenacia in cui matura la severità della scelta, la disciplina del pensiero, la disponibilità culturale ai testi altrui. Peppino D’Alessandro è una miniera di ricordi su questi e su altri scrittori e si starebbe per ore ad ascoltarlo. Un libretto suo di memorie aiuterebbe a conoscere meglio questi autori dei quali sa pure più di quanto dice: molto se lo tiene per sé, mantiene il segreto che possa deformare la loro figura. La sua aneddotica è piena di omissis, ovviamente non su argomenti di stretta pertinenza del medico. Non si tratta mai di ricordi che possano sminuire la grandezza che egli giustamente attribuisce a Debenedetti, Caproni, Macchia e altri. Semmai accrescono la sua devozione agli amici che di volta in volta gli davano il nulla osta per la pubblicazione di poesie che spesso leggevano non appena messe sulla carta.
Sapevano che il loro amico scriveva solo quando non ne poteva fare a meno. Poi, per la qualità del testo, ci vuole “fortuna”, che è parola ricorrente in D’Alessandro. Al caso però lui si affida soltanto dopo enorme studio di sé. Bisogna meritarsi lo stato di grazia che premia la fatica. Il lettore non sia veloce, se vuole incontrarla: non solo negli ultimi versi di una poesia. La clausola non chiude i conti aperti dai versi precedenti.
Peppino D’Alessandro ha tenuto testa alla sua doppia vita. Non si fa il medico pensando ad altro. Una cosa dopo l’altra: salvando canti, figure e idee come se si dovessero salvare vite umane.
Dopo aver curato i corpi dei pazienti, correva al capezzale della propria anima, non di rado intenta a interrogarsi sul senso di ciò che si fa quotidianamente. Poesia come secrezione stimolata dalle occasioni delle varie stagioni della vita. Il suo lessico è quello “povero” con cui il mondo, quello contadino e quello industriale, trasmette da sempre messaggi nitidi e insieme cifrati. Tremò la volta in cui gli parve ignota la faccia del figlio.
Questo poeta soffre moltissimo mentre setaccia i suoi componimenti. Che diventano sempre più brevi. E brevi sono i versi anche in Il fiume dentro di noi: più che fiumi, ruscelli, esili rigagnoli che precipitano verso il mare, quello che nel Mediterraneo rimanda alla madre e alla morte (La bottiglia / è leggera sopra il mare. / La bottiglia / è verde come il mare. / Tutte le bottiglie verdi / sono il mare). Versi che sgocciolano come cera: possono scottare ma sono anche plasmabili, come si addice a chi tenta un autoritratto, sapendo che il marmo è ormai in disuso.
Ossessioni cromatiche e simboliche, ma parole distillate: peraltro senza alambicco, magari spremendosi le meningi che la lettura dei versi dei maggiori ha accanitamente allenato. Lunga e sofisticata ricerca di chi ambisce ad essere naturale più che originale. La novità per lui non sta nelle forme, che sono antiche e classiche, bensì nei connotati umani, che non gli sembrano gli stessi ora che è in là con gli anni. D’Alessandro persegue l’ambiguità ma è chiaro che preferirebbe l’univocità con cui si esprime la verità. Ne sente desiderio quanto del Dio della sua adolescenza, massima questione privata di chi teme in età avanzata la solitudine (e noi, sempre più soli, / dietro i vetri della finestra, / a vedere la vita che vola).
Peppino D’Alessandro è tornato sui suoi versi per sottoporli alla prova dell’orecchio e della mente, e questi concordano sull’obbligo di trovare la parola con cui si realizza l’epifania cara a Debenedetti. Così ha scandito i momenti peculiari della sua esistenza, dalla giovinezza alla vecchiaia. Al poeta la Befana ha portato in dono parecchi bei versi.
Perde contanti / di vita la mia vita, e tuttavia pure la senilità è vissuta in alacre tensione creativa: ma non sono ancora / sazio di giorni. Peppino non si perde un attimo della sua vita: aspettando che gli si riveli il pensiero sublimatosi in immagine e musica. Non è mai una canzonetta, e non è nemmeno melodramma una poesia che non ha fretta d’arrivare e che, se serve, non asseconda l’orecchio corrivo. Nella frattura di ritmo, più che nella rima, può nascondersi ciò che più intimamente cerchi.
Nella poesia dedicata a Giorgio Caproni Giuseppe D’Alessandro ha espresso un desiderio che è una poetica: A chi fa versi / e insieme filosofia / è raro che avvenga / che inventi armonia. / A te è stato concesso / anche questa magia. Peppino ci mette la filosofia che s’è procurato con la lunga e vigile esperienza, insegue l’armonia che scarta la troppo facile melodia, e talvolta ai suoi versi viene data in dono la magia. Il poeta non è immortale, ma l’anima del credente sì: Continuerò a chiamarti / anche dall’aldilà, – qui parla la segreteria / telefonica del numero / tre cinque tre quattro... / lasciate un messaggio / dopo il segnale acustico, / grazie – Per udire / e riudire ancora / la tua voce.
Ora che sta più a lungo in casa e passa più tempo a guardare la vita dai vetri della finestra, i pensieri arrivano portati dalle immagini. Che sembrano bastare da sole: come dire che i pensieri condensano un senso che è intenso e polivalente nella visione. A lui basta un solo termine di paragone: quello visivo ha infatti un significato più esteso di quello di cui si fa carico la riflessione. Le sue intrusioni non sempre legano col resto, ed evidenziano l’inciso. Ma se non ci fosse / il pensare / non ci sarebbe / nemmeno Dio / in cima alla scala.
Peppino si applica con umiltà, pazienza, perseveranza, calcolo, passione e aspetta il miracolo, che non si manifesta dove te l’aspetti. Magari arriva anche con la segreteria telefonica e comunque dal basso, per terra, nella vita quotidiana, dai piedi, di notte, persino da ebbri. Nella notte solo / i passi dell’ubriaco / allargano le strade. Non basta la saggezza, non basta la scienza.
Al medico piacerebbe che i suoi versi calmassero l’ansia di chi ha paura sia di vivere che di morire.
Molti critici e poeti hanno manifestato interesse per i versi di Giuseppe D’Alessandro. Come si sa, il risparmio dei testi magri ingrassa le interpretazioni. La sua poesia si può quindi leggere in modi diversi da quelli sin qui seguiti. Se essi sono tanto produttivi, significa che i versi sono fecondi di senso. Si vanno riducendo all’essenziale, che qui ha un nome ricorrente, Dio: forse più onnipotente che onnisciente. Non deve essere nominato spesso perché si capisca che Peppino D’Alessandro ci crede. Il trenino porta / nel suo fischio / improvviso ogni volta / la voce – il grido – / di Dio. È presente in ogni luogo dentro una poesia che è sempre più di ispirazione religiosa. Non lo mostra, ma lo sta cercando con l’assiduità di chi lo desidera e lo sente vicino. Il cielo è solo / un pannicolo azzurrino / e una nuvola bassa / una linea sottile / che cammina. / Non sono felice. / Ma non sono triste.
Walter Pedullà
L’ultimo periodo
Quando giunse l’ultimo
periodo cominciasti
a tagliare ancora più
in pezzi le sigarette,
compagne della tua
Olivetti e della sedia
a braccioli, dove
sedevi scrivendo
fino a sera.
Ma, prima di cena,
in una tazza da caffè
un dito di Cognac
succhiavi con uno
spaghetto col buco.
Dicevi che ti recava
poco danno perché
una parte dell’alcool
se la prendeva
la pasta-semola
di quella inusitata cannuccia.