Le regole di Anacleto
Le regole di Anacleto
Nora Cavaccini è nata nel 1979 a Roma dove vive e lavora. Si è laureata in Lettere. Ha vissuto anche in Spagna dove ha legato il suo nome ad una raccolta di biografie femminili. Collabora a riviste di archeologia e di arte
INCIPIT
I
«Per ischerzo, amici, vi ho riuniti qui stasera. E in nome dell’arte, e del pensiero.»
Le parole di Anacleto echeggiarono così vigorose e sonore, da far dubitare che a proferirle fosse stato veramente quel piccolo uomo: basso e paffuto, stretto in un panciotto da lacchè. Chiunque si fosse trovato a passar di lì per caso, in effetti, avrebbe probabilmente sorriso di quella contraddizione: tra la maestà della voce e la minuzia di un’umile presenza.
Anacleto se ne stava ritto, guardando di fronte a sé con sfrontata sicurezza e senza fissare alcun punto se non uno immaginario, perduto in qualche parte della sua testa. Con incredibile disinvoltura aveva preso a massaggiarsi le estremità del panciotto con i pollici e a sporgere il petto in fuori, che si gonfiava e si svuotava per effetto del respiro un poco affaticato.
Un fruscio impercettibile, come una pagina sfogliata, ne richiamò l’attenzione ed egli allora proseguì: «… sì, per ischerzo! E per sottoporvi a una piacevole costrizione, per rendervi per la prima volta in vita vostra artefici e benefattori verso questo ridicolo mondo.»
Per un attimo lo spazio si saturò di luce e di parole; quelle grasse, corpose parole di Anacleto. Poi qualcuno cominciò a respirare, con la fatica che segue ad una forzata apnea. Qualcuno, masticando tela, bofonchiò: «Mpfh… ma tu? Tu, chi cazzo sei?»
Ad Anacleto le parolacce non piacevano.
Era cresciuto in un ambiente distinto e la dignità della sua persona, pure palese, era tutt’altro che di facciata. Inoltre personali supposizioni lo rendevano maldisposto verso quello che giudicava un modo meschino di trarre forza al ragionamento, a mezzo di semplici fonemi.
Comunque sia, quali che fossero le sue opinioni in merito, in quella circostanza non si scompose di un solo capello. Se ne rimase per un bel pezzo a rimirare gli occhi del suo interlocutore e a riflettere sull’ingenuità di sprecare quell’attimo di fiato in una domanda tanto antipatica.
Di fronte a lui sedevano cinque persone; l’uomo che gli si era rivolto, unico tra loro, aveva una corporatura molto grossa e a stento trovava posto sul piccolo supporto di legno in cui si vedeva costretto a sedere. Accanto a lui, e non senza sacrificio, stava un ragazzo. La freschezza del viso ne rendeva manifesta la poca familiarità con le fatiche del vivere quotidiano e l’arroganza con cui fissava Anacleto, l’irrequietezza che ben si addice ad una giovane età. Sembrava volesse sfidarlo, con una tensione a stento trattenuta. Al contrario, la donna che gli era di fronte, non aveva fatto altro che singhiozzare e seguire con occhi supplici i passi di Anacleto, che la ignorava volutamente. La sua attenzione, piuttosto, era tutta per le due persone rimaste.
Alla sua destra un uomo fissava con perfetta immobilità un angolo screpolato del muro, e solo di rado riportava lo sguardo su di lui, quasi a volerlo evitare. Dall’altra parte, invece, una giovane donna rimaneva in silenzio. Non era facile capire se il suo fosse riserbo oppure il frutto di uno smisurato orgoglio, ma qualcosa comunque le impediva di fare sfoggio della sua femminilità.
L’intera scena, probabilmente, non sarebbe apparsa inquietante solo ad uomo dotato di gran senso dell’umorismo: erano insaccati come salami maturi, legati mani e piedi e con un bavaglio rosso sulla bocca.
La stravaganza del luogo esasperava ancora di più la situazione. Sembrava una piccola chiesa sconsacrata cui fosse rimasto, come unico richiamo religioso, la spoglia architettura e i supporti in legno che l’abitavano. Non vi era traccia di icone né di allegorie sacre; eppure la luce che calava a precipizio da un foro del soffitto, assumeva una carica simbolica più pregnante di qualsiasi altra consuetudine liturgica.
«Avete paura di morire?», domandò Anacleto con noncuranza. «Fate bene. Ma non dovete temere che io sia il vostro dio. Non sono altri che un maggiordomo, non un nunzio divino. Non di meno ho intenzione di sottoporvi a delle ambasce.»
L’uomo grasso era riuscito nel frattempo, e a suon di morsi, a liberarsi del fastidioso bavaglio e vedendo che la cosa non interessava ad Anacleto, volle ripetere: «Chi sei? Che vuoi da noi? Chi è questa gente?»; la timida signora dagli occhi lividi a queste parole riprese a singhiozzare, rischiando di rimanere soffocata.
«Suvvia, cara signora, non faccia così», la rassicurò Anacleto, «si calmi. Quanto a lei, colossale Morgante, mi sembra di averle già risposto. Altra è la domanda da porre», e così dicendo si avvicinò alle panche e con le lunghe dita cominciò a slegare uno per uno i nodi di stoffa colorata, liberando pazientemente le cinque bocche. Poi, vedendo che tutti si ostinavano in uno stordito silenzio, sentenziò: «Da questo momento in avanti non avrete più un nome. Non il vostro, almeno. Non sono il vostro dio ma chiedo mi sia lasciata quest’unica traccia di onnipotenza: l’impositio nominem.
Vi occorre un nuovo appellativo. Dunque, vediamo… siete in cinque… e cosa vi accomuna?», a questa domanda la tensione salì alle stelle e Anacleto, che si sarebbe venduto l’anima per una sana risata, volle eludere la risposta.
Si limitò a ragionare: «Cinque… cinque come… come le vocali. Ecco sì, è divertente! Partiamo da qui.»
Quindi si mise a scrutare ogni volto e prendendo le mosse dall’uomo che sedeva in prima fila sulla panca, quello dell’estremità destra, declamò: «Lei sarà la A; e poiché mi sembra giusto rinforzare con un appellativo, la chiamerò Mr A.» Anacleto sospirò di rinnovata allegria e proseguì portando lo sguardo sull’altra estremità, dove sedeva la donna dignitosa: «E lei invece… lei sarà la Signorina E. Sì, è carino, mi piace e le si addice, ha un che di femminile e contenuto assieme.» La donna arrossì, senza rendersene conto.
«E ora veniamo a voi tre», continuò con un certo eccitamento, «la I la diamo al ragazzo; è slanciata e impertinente come lui, il Giovane I. Quanto alla O non credo ci siano dubbi; la sua forma panciuta ben le si adatta, esimio e interrogante paroliere, e voglio premiare la sua audacia nell’essere stato l’unico, finora, a proferir discorso: la chiamerò Dottore, Dottor O».
«…e io?», domandò timidamente la donna, con gli occhi ancora bagnati di lacrime.
«Mi sembra ovvio, seguendo il ragionamento, che lei non possa che essere la U, d’altronde è l’ultima rimasta. E visto che sono a corto anche di epiteti, non le dispiacerà se ne prendo uno in prestito dal suo fisico: lei sarà la Pallida U.»
Come fosse un bambino appena partorito, l’ultimo fiato uscì dalla bocca di Anacleto per ripetere la bizzarra sequenza: «Mr A, Signorina E, Giovane I, Dottor O e Pallida U.»
«Bene», disse infine, «con questi nomi sembrate usciti da un circo o tutt’al più dalla penna di un drammaturgo. Ma va bene così: mi diverte molto».