L’esperienza dell’attesa
L’esperienza dell’attesa
PREFAZIONE di Cesare Segre
Queste liriche sono la rivisitazione di un’esperienza, come appare dalla rete di composizioni in corsivo, più legate a quest’esperienza, e dalle epigrafi alle parti della raccolta, tratte dal Cantico dei Cantici. Con una struttura rigorosa, che se ricorre al grande poema erotico della Bibbia, mette poi, in apertura, “Fineo”, e, in testa a ogni sezione, altri personaggi della leggenda e del mito greci: “Niobe”, “Fillide”, “Nauplio”, “Asterio”, certo per parallelismi più o meno stringenti con la vicenda motivante. L’ultimo personaggio è invece il biblico “Isacco”, al cui etimo allude l’ultimo verso, “rise e ridendo vive ancora” (Gen. 18, 10: Sara risit; 21, 6: Risum fecit mihi Deus; quicumque audierit corridebit mihi).
Comunque, l’esperienza dev’essere stata forte, in proporzione con l’intensità espressiva. Quello che si nota infatti subito è che la metaforizzazione, di solito operante su singoli semantemi, qui invece domina lunghe estensioni di testi, o testi interi. Si veda per esempio il testo l’aria densa si rabbuia: le metafore legate a un movimento centripeto a spirale dominano: ogni giro, scale che s’inchiocciolano (efficace neologismo denominale), ventre, seppie in una rete. E in “Niobe”, c’è un passaggio coerentissimo da digrigni a smorfia, attraverso le bocche scardinate.
Se ci si sofferma sulla prima composizione, “Fineo”, si è sorpresi da un inizio che parrebbe cubista, a basarsi sui primi versi (“L’unico occhio se lo portava appeso / accanto al naso, malconcio / bottone di madreperla cucito / dentro il rovo di setole scure che sotto il basco / s’indovinava”), ma non appena ci si rende conto che si tratta in verità (o nell’immagine) di un fantoccio, ci si rende conto che la descrizione è piuttosto espressionistica, tutta fatta di oggetti familiari lisi e rattoppati (malconcio bottone, resti sfiniti della sciarpa, si smagliava intorno a qualche buco, vuoti perduti). Il Witz sta però nel costruire questo fantoccio intorno all’ovidiano Phineus, indovino (qui senza memoria) e tormentato dalle Arpie (qui un paio di cani sporchi).
L’espressionismo di Campana sta nel portare il campionario degli oggetti, i più familiari, a esprimere la tensione dei sentimenti o dei pensieri. Si torni a “Niobe”: abbiamo una “gioia gigantesca” e la “misura del pianto” cucite “tra gli strappi / di qualche giubba, nei rammendi delle / asole senza bottoni”. E spesso è proprio lo sbriciolarsi, l’acciaccarsi, il bruciacchiarsi, l’aggrovigliarsi che si sovrappone e annichilisce le aspirazioni: si veda Difficile e vano fu il capire quali acciaccati, dove ci sono da una parte dei “presagi”, dall’altra i segni di una realtà marina degradata e in preda alla dissoluzione (ultimi gesti). E si badi che gli ultimi gesti sono quelli di un grillo, con le sue zampette invase dalla morte: un minimo insetto è addetto a veicolare alti simbolismi, come “lo scoppio del cuore / di una zanzara” in non saremo mortali per sempre. Ci si rende poi conto, leggendo, che questo sbriciolarsi del mondo è lo sbriciolarsi di una costruzione del sentimento, quella che il libro descrive con strazio, e vorrebbe rendere reversibile.
Alla serie metaforica si aggiunge dunque l’enumerazione, in cui un mondo brulicante di animali e vegetali declina gli aspetti di una realtà che anela ad essere investita dai significati. Nella poesia le squame rigide delle spigole incontriamo appunto, dopo le spigole, il polipo e i fichi d’India, i limoni e le melanzane, le salamandre e l’ibiscus, l’albicocco, il gheppio, i merluzzi, e così via, e soprattutto “una tartaruga capovolta / dall’irriguardosa curiosità del tuo / cane” (i genitori del poetante stanno senza problemi in mezzo a quella natura). La crudeltà della tartaruga capovolta è già accennata dalle “squame rigide delle spigole” appiccicate alle unghie di chi narra, e trasmessa persino al sole, che “azzanna l’ombra / dei fichi d’India”.
Il mondo descritto è vivace anche per i colori, nella sezione “Tempo di lampare” e oltre, di una natura marinara; ma anche gli odori hanno la loro parte. Basta inseguire i cenni all’aglio e alle cipolle (“l’odore vizzito delle cipolle”, “e resta solo l’odore dell’aglio”, “lo spicchio d’aglio che t’avevo pregato / di risparmiare”), o all’odore salino del vento e del pesce (“l’odore / ingiallito delle vecchie notizie / sui cartocci del mercato”) o al “sapore del fieno”.
L’espressionismo non denota soltanto lo scempio della situazione vissuta, ma anche la fatica di una ricerca. La poesia dentro la crepa che ulcera lo scoglio è costituita da immagini di ulcerazione (crepa, ulcera, cicatrice, sventrate, e anche scartavetrati: altro bel neologismo), ma tutto punta verso un “tempo nascosto”, verso i “cocci di memoria”, perciò verso uno scavo entro le ulcerazioni, per trarne il contenuto recondito, come le radici che si allungano verso il basso, nella terra profonda. Ecco perciò la serie di verbi e sostantivi inizianti con s preconsonantica da ex (scartavetrati, sfiorito, smerla, sfinisce, sventrate, sgola, e anche, per affinità fonica, stipiti), che alludono a ulcerazioni, a ferite, a scavi nelle ferite.
Il tempo è un elemento guida. In sarebbe stato meglio non saperlo, il tempo, certo quello di un amore, viene seppellito, quasi per eternizzare almeno la memoria. Eppure esso continua a operare, “lingua d’istanti che lecca / la nostra bugia, la favola / che ci salò le parole per incantarne / la frana”. Il poetante preferirebbe non sapere, ma invece sa, “il male che ci siamo fatti”; e in “giorni insipidi” continua a spingersi verso l’ora in cui avrebbe forse potuto evitare il disastro. Rimane l’inevitabilità, o l’invito, a ricordare “quel giorno”, “quell’ultima volta”. S’apre con “la voce delle beccacce” e si chiude con “le nostre antiche paure, le voci / di sabbia e saggina” il testo la voce delle beccacce s’asciuga. Sono tutte voci del passato intercettate con rimpianto; ma al centro della poesia c’è il sentimento centrale, il desiderio di recuperare il passato: aspetto (verbo), attesa, previsione, speranza.
La dialettica memoria/smemoratezza, attesa/rinuncia all’attesa, non tocca solo il poetante, ma anche la sua esplicita o implicita interlocutrice, che però ha una posizione opposta: tendenza alla smemoratezza e concentrazione sul presente. Uno dei testi più significativi in proposito è ancora credi che in autunno le chele, con la serie incalzante d’interrogazioni centrate sul verbo credere, che perciò non interpella il reale ma la possibilità di prendere posizione riguardo ad esso. La “felicità / mangiucchiata dai topi” per l’uno fa parte del passato, per l’altra di una volubile attualità; e se lei può distrarsi con “le capriole leggere delle tarme”, lui capisce che il tempo ammazza ben più di “qualche topo”. A lei compete “la furibonda grazia della tua attesa”, lui è consapevole che gli viene additato qualcosa di ormai morto.
Le poesie sono raggruppate secondo una trama biografica, come quasi sempre nei canzonieri: una trama che però solo l’autore potrebbe illustrare. Certo il titolo (L’esperienza dell’attesa) sembra alludere a qualcosa di ancora raggiungibile, mentre il “racconto” sembra dire che l’attesa è ormai inutile. Speranza nell’insperabile? Quello che è certo è che le polarità sono extratemporali, e il ritorno del passato può anche avvenire, in qualche modo lontano dalla realtà, nel futuro immaginato (“tornando indietro / rise e ridendo vive ancora”). Quello che pare di avvertire è che nella fase più avanzata del distacco tra i due attanti il ritmo si è fatto più veloce, ed è sottolineato dalla musica e dal ballo (“le note dell’orchestra che ti barcollano / sfinite fra le labbra”; “i ricordi… sono ballerine / che tremano e si spogliano”; “lo sbuffo del fagotto annuvola i velluti di biscrome”; la “ciurma di note / ammutinate fra le righe / del nostro ultimo jazz di vinile”). Certe immagini diventano ossessive: “immagino il tuo seno sulle mani”; “le tue mani sul mio / petto”, “il filo dell’ombra girava / sul seno”. Oppure: il “vino / rappreso nei bicchieri”; “mi piace poggiare / il bicchiere sopra quei grumi di tempo”; “le labbra vuotavano / ancora il bicchiere”.
La frequenza dell’avverbio ancora, segno di persistenza memoriale di ciò che non è più, si fa verso l’epilogo altissima. E l’avverbio è inserito in un ambiente crepuscolare, quasi funebre: “ le due macchie di vino sono ancora / lì tenaci intorno agli ultimi / tarli del tavolo”; “le labbra vuotavano / ancora il bicchiere nell’eco fin troppo / incredula di sorsi interrotti”; “davvero era stato inutilmente / il tuo saluto dietro i vetri ancora / appannati”. Il rapporto fra presente e passato viene ripensato in complesse enunciazioni sintattiche, come “taci finché / sia possibile dimenticare che siamo / stati ancora vivi” (l’ancora a che presente si riferisce?), oppure “davvero era stato inutilmente / il tuo saluto dietro i vetri ancora” (inutilmente vale ‘inutile’, o una modalità di era stato?). Certo, l’ultima composizione, che contiene l’ultimo esempio, cancella il passato prima con l’inutilità, poi con l’appannamento dei vetri che hanno lasciato appena intravedere l’ultimo saluto, infine con la miseria di un pezzo di cartone, proveniente da un altrettanto misero supermercato, vecchio, fallito, svuotato; un cartone che per di più è già stato utilizzato due o tre volte (“due o tre volte avanzo / di qualcosa”). Molto peggio che una lastra tombale.