Libertà vigilata
Libertà vigilata
La poesia di Stefania Rabuffetti si offre disarmata, trasparente, allo sguardo di lettori capaci di altrettanto candore: “Mi voglio mostrare senza trucchi”. Così, fin dalle prime pagine si tratteggia in modo perentorio la cornice entro cui leggere i suoi versi: “Non so vivere nel mondo / perché lui è tondo / e io quadrata...”: il proprio disadattamento è detto in modo esplicito, con una drammaticità che ha qualcosa di irreparabile e però anche di ludico. Attraverso componimenti limpidi, di semplicità quasi scandalosa, come il diario tremante di un adolescente pieno di “tafferugli mentali”, si disegna uno struggente canzoniere d’amore: “sei vento entrato dentro i miei passi”. L’interlocutore cui si rivolge l’ha salvata e l’ha dannata, colma le assenze, accelera i minuti, ruota nei suoi pensieri “come girasole impazzito”, è la sua voce e il suo silenzio, è moltitudine e zona d’ombra. Quella della Rabuffetti è poesia onnivora, impudica, non selettiva, incurante di buone maniere o di “strappi fonetici”.
Lei avverte la vita che “crepita” dentro di sé, da tutti inascoltata, ma rinuncia o non riesce a viverla. Una sensibilità apocalittica, cupa, di tipo gnostico trapassa nel suo contrario, in un inaspettato amore per la realtà. Lei che forse non avrebbe voluto uscire mai dalla felicità edenica dell’utero materno, poi però, con una torsione esistenziale simile a quella di Pasolini, si aggrappa disperatamente alle forme dorate della vita terrestre, “stelle in cielo e grano tenero”. Ed è struggente, proprio perché affiora dai “giorni persi al buio”, il suo abbandonarsi a chi potrebbe sbiancare le ombre del suo viso con delle “nuvole di latte”.
Filippo La Porta