La lingua ha forse ancora un carattere dialogico in senso metafisico? A me sembra che essa sia puro cascame, logoro chiacchiericcio. È tutto un vicendevole parlarsi a vuoto. Il compito del discorso e della parola si è spostato, adesso siamo nella lingua furbesca. Slang, argot, furfanti ammiccano tra loro con le parole, si può anche dire che la lingua è diventata un fatto puramente politico, ormai non tocca più una qualche profondità umana. La gioventù non può parlare con la vecchiaia, là l’istinto, qua l’esperienza, e quando l’elemento corporeo non urge più viene la morale. Il religioso non può più parlare con l’uomo di mondo, chi non ha avuto in sorte il dono della fede pensa in modo piatto e lineare. La madre non può parlare con la figlia perché la figlia tace i suoi piaceri e la sua vergogna. L’artista non può parlare col politico, questi è attuale, l’altro acronico. Tutto questo è solo vaneggiare, spregevole inarcarsi di voglie, un nascondersi dietro veli, un brusio di sedie – nel profondo non ha pace l’Altro, che ci fece ma che noi non vediamo. Ci nutriamo di incontri con noi stessi in brevi ore – ma chi incontra se stesso? Solo pochi, e in solitudine.
GOTTFRIED BENN
Quando sei da solo,
non credere d’esser solo.
Lui (lei) è sempre con te.
ALEKSANDER WAT
A Franco, con Armando che sorride
L’ultimo atto che Franco Tutino ha compiuto prima di distaccare definitivamente da sé i versi di Luce all’intero è stato quello di trascegliere due brevi sequenze di Armando La Torre, un grande saggista prematuramente scomparso nel 1984. Si è trattato di un profondo atto di magia del cuore: una velata quanto gioiosa dichiarazione di gratitudine nei confronti del proprio maestro, le cui parole ora si possono leggere in apertura del libro – e si trovano apposte lì in maniera niente affatto casuale, visto che – ogni magia del cuore, come tale, produce i suoi effetti – è proprio in quelle poche righe che è nascosta, in piena evidenza, la guida per orientarsi in questo viaggio poetico, per compierlo non da sonnambuli, per esserne trasformati. Proviamo allora a leggere: « Nella dinamicità della scrittura si insedia la drammaticità della vita: nella “nebbia di parole” si annida il mistero dell’esistenza». È esattamente ciò che accade nell’opera di Franco Tutino, in cui la “nebbia” dei versi, raggruppati in struggente canzoniere d’esorcismi lirici tematicamente intonati a ciò che potremmo sommariamente definire una biologica, primaria, religione degli affetti, pudicamente cela e custodisce quello che è il mistero per eccellenza dell’Occidente: vale a dire, la ricerca sapienziale intorno all’esperienza metafisica. In questo senso, il secondo brano di La Torre, scelto da Tutino, risulta assolutamente illuminante: « Come la stregoneria, anche la scrittura suscita e tiene desta un’esigenza metafisica di difesa contro l’irrealtà quotidiana ». A sua volta, un distico di Luce all’intero, con la sua bruciante energia linguistica, fa da perfetto controcanto a quest’ultima affermazione: « Io so restare solo, ne ho bisogno /in tempi in cui si vive da convegno ». Naturalmente qui il vocabolo “convegno” non è mera registrazione tautologica di un particolare evento sociale, magari patito come alienante, ma piuttosto, caricatissimo di valore semantico, fulminea sineddoche, sostantivo-emblema proprio di quell’irrealtà quotidiana di cui sopra scriveva La Torre, un’irrealtà ormai divenuta quasi completamente l’unica realtà riconoscibile e vivibile in cui siamo rinchiusi come Pinocchio nel pescecane; sostantivo-emblema di quella che Carmelo Bene, citando Deleuze, chiamava la “macchina”, vale a dire quell’apparato tecnico, ormai coincidente tout court con la civiltà occidentale, che sta ineluttabilmente esautorando l’essere dell’uomo così come finora l’abbiamo conosciuto, così portando a compimento quel destino nichilista di cui hanno parlato tutti i poeti e filosofi d’occidente a partire da Nietzsche fino ad oggi. E infatti: «Oggi non so più il mondo come è » canta un altro verso, amaramente in tema, del libro. Eppure, malgrado questa disperata condizione, Qualcosa o Qualcuno, in Tutino, sembra voler resistere e sottrarsi allo schiavizzante potere allucinatorio di questo (per continuare a utilizzare il suo vocabolo) “perpetuo convegno forzato”; ed è da questo piccolo seme di ribellione che nasce la sua scrittura poetica: « Un pezzo della vita da più anni / vive da sé, mi chiama stando contro. /Cerca un incontro, non lo vuole dire... ». Qualcosa o Qualcuno chiama e l’ego scriptor, rispondendo alla chiamata, si mette in moto, inizia a scrivere, invocando « Un viaggio che allontani, che riporti, / un viaggio verso nostri porti:/ che possa illuminare l’esistenza, /e i troppi giorni senza ». Questa sua invocazione viene subito accolta ed è per questo che il risultato di tale azione, vale a dire i versi di Luce all’intero, si profilano ora alla lettura come il resoconto emotivamente preciso di un viaggio sciamanico di trasformazione e guarigione interiore, un viaggio di cui l’ego scrive mentre lo compie, un viaggio tutto svolto in quel terzo regno intermedio – tra mondo materiale e mondo metafisico – che i mistici mussulmani sufi appellavano come “immaginale”. Un viaggio che lo porta ad incontrare colei da cui proveniva la chiamata, colei che cercava l’incontro segreto; colei la cui figura angelicamente erotica riempie ora di energia benigna la gran parte dei suoi versi: quell’“amante invisibile” che gli regala paradossali quanto veridici « Aperti desideri » e può farlo, se solo vuole, più « non cambiare », essere nel divenire, e così più « non essere divelto »; che può fargli dimenticare ogni altra cosa, nel mistico «tempo dell’amore ritrovato », grazie alla forza delle sue «passioni che guardano a quiete ». Quella “sposa celeste” il cui corpo « con ali» e «segni di comando » raggia nella sua vita «a farla non finita » e a cui l’ego domanda, con totale devozione, in stato di trance, di chiamarlo «coi nomi » che lei ha, vale a dire di fondersi, diventare lei, lasciando cadere la propria identità come fosse un vestito di cui ci si denudi; colei che è infine, e soprattutto, come recita il distico centrale su cui ruota tutta l’opera, «la profondissima emozione /che dà luce all’intero, lo compone » e che quindi, come tale, riesce, via amoris, a trasformarlo in quell’idiomatico “Io per niente” su cui si chiude una delle più belle quartine del libro; ovverosia, in un “testimone” metafisico, capace di estinguere nella consapevolezza l’imprigionante bisogno di doversi credere una persona per poter essere e, ad un tempo, capace di perdersi, senz’essere «disperso», nell’istante, nel «tempo del silenzio che precede», senza più «temere sembianze in cambiamento»; in un savio, consapevole che nella vita «L’incanto sorridente è» sempre «a tratti», sia esso a volte «un figlio» e a volte «una figura/ trovata lontanissima dagli occhi»; in un uomo estatico dunque, in grado di tramutare «con la mente tutta assente, tutta invasa» il dolore straziante della più atroce separazione, quello dalla propria madre appena defunta, in un sentimento sottile d’unione, così come in grado di far coincidere il proprio quieto sorriso, nel mezzo della battaglia, con il sorriso distaccato del proprio maestro scomparso – uno di quelli che, come diceva il suo amato Lacan, non solo non parlano più, ma non finisco mai di non parlare – a formare un solo unico sorriso: quello di un maestro del silenzio. Di quel dolce silenzio acronico da cui delicatamente si strappano e a cui rimandano, fedelmente, tutti i versi di Franco Tutino.