Viviamo solamente un lampo, senza neanche rendercene conto, impegnati così, materialmente, solo a vivere. Ci abituiamo talmente alla vita che non pensiamo possa finire, più o meno improvvisamente lasciandoci niente, come eravamo, da dove siamo venuti. Intorno, intanto, molte cose inutili. Magari tutto avesse la stessa consistenza del sogno: è sempre, invece, un poco meno bello, un poco meno desiderio. Tante cose ci lasciano storditi, siano queste amori, palesi bugie o l’effetto del tempo sulle nostre opere, siano queste libri, cattedrali o dagherrotipi. Io sono al mondo grazie a tre o quattro ciappini che ho dentro il cranio, ermeticamente chiusi lì dentro con il resto del motore. Se non ci fossero quelle mollette, se qualcuno non le avesse sistemate con perizia là dove spero resteranno a lungo senza arrugginirsi spostarsi sbulonarsi, sarei stato già da un po’ polvere per un attimo nel vento, poi sparsa in terra, serbatoio momentaneo di molecole, qualcuna utile per il ciclo dell’azoto, forse. Tutto questo succederà comunque fra non molto, solo un poco dopo quello che sarebbe potuto essere. E allora qui a scrivere sulla dimensione del tempo che corre senza senso né regole, di giorni colorati o a raccontare la sensazione di velocità ad occhi aperti il più a lungo possibile, attento ai soffi dell’anima, a prescindere da quello che l’anima possa essere, se come perché ci sia data, da chi. Successione di fotogrammi, filmino in superotto, vecchia audiocassetta con tratti stonati a velocità diversa, il mondo di fuori visto dal finestrino di una solida millecento con il cambio al volante, il mondo in bianco e nero di un bambino negli anni Sessanta che sale stupito, dieci anni dopo, su una grigia carrozza centoporte ancora in servizio viaggiatori fra Firenze e Arezzo, si siede sui sedili di legno esce la testa dal finestrino per andare incontro al vento, vedere i binari in lontananza tremolare nel sole. Pensa chi, come sarà quel suo primo grande amore che assorbe i pensieri e non ti lascia, non ti lascia più. Si stupisce dei momenti di felicità assoluta, imprevisti inspiegabili, improvvisi come gli occhi che sorridono un attimo e rapiscono per la vita. Si diverte cercando di vedere le immagini degli altri, quante ne trova che potrebbero essere sue e lo sono per un istante che dura un sorriso, un silenzio scambiato, una complicità. Pensa le epifanie di James Joyce e i tumulti del sangue di Cesare Pavese.
Ieri è finita. O perlomeno scrivo il desiderio di dimenticare questo giorno, una certa finita successione di eventi anche se non sarà. Pomeriggio tranquillo, di quelli con musica e telefonate a bassa voce. Il sangue corre più lento oggi nelle vene, di fuori colori come prima, assenza e desiderio di prolungare una malinconia sottile, solitudine leggera fino all’oblio anche di quei momenti-ricordo fragorosi che si spengono. L’immanenza del presente soffoca grida passate, ora è silenzio, musica di Vangelis, un libro tiepido, una rapida cena senza pensiero in solitudine, il letto ampio freddo si anima dei torpori e sospiri di ieri. Vorrei l’intervallo tra un pezzo e il seguente fosse più breve, che la canzone non finisse, che il sabato pomeriggio rimanesse piacevole ideale pausa fra prossimi itinerari alla ricerca di situazioni, occhi nuovi. Il sole è andato giù discreto e silenzioso anche oggi, ti ho pensata tutto il giorno, continuerò a lungo. Speriamo mi aiuti il silenzio, avanti c’è un viaggio difficile non verso qualcosa ma via da te. Che sia poco o tanto non conta, dentro si allarga uno strappo profondo che fa male anche più di prima, ma il mondo è grande, torno sui treni, ai finestrini in corsa sulle tratte solitarie, le campagne bruciate di sole o spente di nebbia. Sotto la polvere tutto ri-diventa polvere, anche il ricordo anche i tormenti di te. Più o meno come dice il vangelo, stessa metafora in chiave un poco più material-materialista. Spero succeda come quando il fuoco si spegne, il vento si placa, la marea si abbassa, le luci della costa si attenuano spariscono man mano la nave si allontana. Un contatto totale che era di pelle sussulto respiro diventa distanza incolmabile, senza un perché che non sia la… “vita”.