Partenze
Partenze
Finalista al premio San Vito al Tagliamento sezione Opera prima
Marina Giaveri
Anche se il riparo delle tue notti è poco sicuro
E la meta ancora lontana
Sappi che non esiste
Sentiero senza una fine. Non essere triste.
“Per mesi – commenta Bouvier – quest’iscrizione servì da Apriti Sesamo e da salvacondotto in angoli del paese dove non si ha per nulla la consuetudine di amare lo straniero. In Iran l’influenza e la popolarità di una poesia sufficientemente ermetica e vecchia più di cinquecento anni sono straordinarie. Negozianti accovacciati davanti alle loro botteghe inforcano gli occhiali per leggersene dei pezzi da un marciapiede all’altro. In quelle bettole del bazar spesso piene di teste matte, si capita a volte su un consumatore vestito di stracci che chiude gli occhi dal piacere, completamente estasiato da qualche rima che un compagno gli mormora all’orecchio. E fin nel fondo delle campagne si recitano a memoria poemi di Omar Khayam, Saadi o Hâfiz.”
Forse, in qualche accidentato momento del suo vagabondaggio fra Serajevo e il Khyber Pass, la poesia ha salvato la vita di Bouvier. Come ha salvato la vita (o almeno la sanità mentale) di certi prigionieri nei terribili viaggi verso campi di concentramento ove sarebbe stato unico conforto un libretto consunto o versi appresi e trasmessi a memoria.
Altre partenze conducono verso l’origine: nelle Inspirations Méditerranéennescon cui commenta il più mediterraneo dei suoi poemi, Paul Valéry ritrova il percorso di formazione non solo della propria sensibilità intellettuale, ma di quella tradizione di pensiero occidentale di cui si è nutrito ed è diventato partecipe. È un viaggio a ritroso verso le prime impressioni dell’infanzia e insieme verso le prime conquiste filosofiche e scientifiche dei popoli vissuti intorno al Mediterraneo; ma è anche un viaggio verso l’origine delle parole:
“Sapete che la parola latina da cui abbiamo tratto la parola mondo significa semplicemente “ornamento”? Ma voi sapete certamente che le parole ipotesi o sostanza, anima o spirito o idea, le parole pensareo comprendere sono i nomi di atti elementari come posare, mettere, prendere, spirare o vedere: nomi che a poco a poco si sono caricati di senso e di risonanze straordinarie, o che, all’opposto, si sono spogliati progressivamente fino a perdere tutto ciò che avrebbe impedito loro di combinarsi con una libertà praticamente illimitata. La nozione di pesarenon è più presente nella nozione di pensare, e la respirazione non è più suggerita dai termini di spirito e di anima.”
Il viaggio verso l’origine delle parole, come il viaggio delle parole verso nuove libertà o nuovi vincoli di significato, sustanzia la poesia. Nei versi dedicati al suo Mediterraneo, Valéry ritrova il miracolo euforico della scoperta di sé e del mondo: la parola ripercorre i tempi della formazione, ritrova gli spazi della sensazione, si fa ritmo del corpo, incantamento.
Ci sono partenze allegre o malinconiche, avventurose o crudeli nel mondo degli uomini e delle parole: viaggi verso l’origine o la fine, l’invenzione o lo smarrimento.
Nei viaggi più difficili, la parola poetica è scudo e blasone. Può essere la parola d’altri, che difende e protegge, come i versi di Hâfiz riportati sulla portiera di una Topolino, come le strofe di Leopardi o di Goethe recitate da prigionieri nei campi nazisti; può essere la tua stessa parola, che fiorisce nella disperazione della Siberia (e magari si irradia, raccolta da eroici compagni, segretamente trascritta, e poi gridata e letta quando nulla più resta del suo autore) o nella ricerca di senso in un momento critico del vivere quotidiano: amore o malattia, metamorfosi o lutto.
La parola poetica, come ha ben mostrato Valéry, è il filo d’Arianna di un duplice percorso; sa ricondurti all’indietro, fino al gemito e al grido, fino al ritmo tramite cui il corpo si parla; sa accompagnarti in avanti, traducendo l’emozione in pensiero, la confusione in ordine sintattico, in profondità semantica, in storia personale e comune. Fragile e testarda, resta in bilico fra origine e fine, in perenne esitazione fra suono e senso.
Per questo, quando la “partenza” avviene nel segno di una perdita, soccorre la parola poetica. Se la poesia italiana nasce (l’ha ben commentato Jorge Luis Borges) dal dolore di un amore doppiamente perduto (perché Beatrice non ti ha amato, perché Laura è morta), se la poesia moderna si cerca (l’ha ben commentato Walter Benjamin) fra le rovine delle città stravolte dalla metamorfosi urbanistica, è nella testimonianza quotidiana dei poeti che la solitudine, la morte, l’esilio trovano reiteratamente voce: e diventano per questo affrontabili, come nemici che ci stanno finalmente di fronte.
Il bambino perduto, l’amore dimentico, il padre malato, il tuo stesso corpo che invecchia, mimando forme paterne (“Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani” comincia una delle più belle poesie di Giovanni Raboni), suggeriscono l’irregolare meraviglia di un grappolo di versi liberi, la classica meditazione di un sonetto, la sintesi inalterabile di un’immagine. Oppure è il miracolo di un incontro, l’accarezzata paura di una passività amorosa, l’euforia di una perfezione intravista che non trovano altro mezzo per restare, né altra voce per dirsi – travalicando il quotidiano del linguaggio, il frammentario della comunicazione.
Tutto questo – e altro ancora – è la parola poetica.
Al lettore (l’appassionato lettore dei villaggi iraniani, l’annoiato lettore dei viaggi italiani) è dato il ruolo di farla risuonare in sé, saggiandola come metallo prezioso, saggiando se stesso al suo confronto. Ed ecco il miracolo per cui l’inesprimibile (gioia o paura, annientamento o speranza confusa) trova una forma, può essere detto e valutato, come quando un’incognita diventa segno e si colloca in un’equazione che ne svelerà il valore.
Ancora Valéry: “X – nome del segreto, denominazione della cosa sconosciuta... Quale idea più degna dell’uomo dell’aver dato un nome a quello che non sa? Posso introdurre ciò che ignoro nella costruzione del mio sistema mentale, e fare di una cosa sconosciuta un pezzo del meccanismo del mio pensiero.”
Di fronte alla questione del sapere e del non sapere, la poesia procede lungo cammini paralleli a quelli algebrici: la “cosa sconosciuta” – o inconoscibile o inaccettabile – si trasforma, grazie a un segno, in elemento costitutivo del nostro essere. Fattasi parola, ritmo, forma, l’individualità di un’esperienza diventa esperienza comune, patrimonio radicato nel passato della lingua e aperto alle voci del futuro.
Marina Giaveri