Nemmeno gli yak attraversano indenni gli assolati, sconfinati pianori del Tibet.
Passando attraverso nevi e ghiacci che sembrano esistere da sempre, sfiorando sterminate praterie battute dal vento gelido e schiacciate da un candido soffitto di nuvole, inerpicandosi per pietrosi sentieri scoscesi onde raggiungere il ristoro d’un monastero abbarbicato tra vertigini di rocce – sollievo del corpo e dell’anima – i quattro personaggi del racconto, squinternati per natura e per scelta di vita, vanno. Con i piedi ben piantati sulla strada e lo sguardo verso l’alto, alla ricerca di una nuvola bianca, entità pura e informe, tuttavia evocativa di presenze femminili, di aspirazioni più alte. Come una piccola mandria di ostinati, cocciuti, orgogliosi yak.
Il romanzo è la traccia di un cammino che attraversa il Tibet e l’anima. Un cammino lungo il quale – tra la maestà delle cattedrali himalayane e la semplice accoglienza del popolo tibetano – sudore e gioia si confondono, pace e fatica coesistono, cielo e terra si avvicinano.
Lodovico Acerbis è nato ad Albino, si è laureato a Milano, vive a Bergamo e nel mondo, che attraversa con lunghi viaggi per passione e lavoro.
Agli studi di design made in Italy affianca il piacere costante della scrittura.
Questo è il suo terzo romanzo, dopo Pierino Sgiufa, il tornitore, Ferrari 2006 e Butterfly, Manni 2007.
ASSAGGIO DI LETTURA
Erano da poco passate le quattro del pomeriggio.
La nuvola era puntuale.
Sorprendentemente puntuale per un essere femminile.
Non deludeva mai: ogni pomeriggio appariva nella valle alla stessa ora.
Bianca e soffice.
Un batuffolo di lana appena dipanato da una cardatrice.
E quella nuvoletta che mollemente risaliva ogni pomeriggio la valle nell’immacolato cielo blu, stagliandosi contro le ferrigne rocce arrossate dall’incipiente luce del tramonto, era la più bella, la più rotonda e armoniosa di tutte le altre che la seguivano.
Dolma, la Tara Bianca, la Madonna dei Tibetani.
I rotondi fianchi e i generosi seni esplodevano arginati solo dal suo sottile vitino di donna indiana.
E sorrideva, sorrideva in modo suadente e misterioso, come la Monna Lisa al Louvre.
Impossibile non rimanere incantati.
E non deliziarsi guardando quei piedini appoggiati sui petali di un fiore di loto, mentre un altro fiore, pure di loto, si apriva in modo allusivo alla sua sinistra, all’altezza del seno.
Formatasi nelle calde e appassionate pianure dell’India, attraversava ogni giorno la vallata di Kathmandu, e s’infilava con decisione lungo la Dudh Khosi per ultimare la sua corsa a quasi novemila metri, sopra il Sagarmantha, la vetta dell’Everest, la più alta del mondo, soddisfacendo in questo modo il suo orgoglio: la conquista della montagna più ambita, la vetta delle vette.
Era la prima a comparire.
Come una fiera e seducente amazzone, faceva da capo branco, trascinando dietro di sé innumerevoli nuvole d’ogni forma e dimensione, spesso in lite tra loro, che si confondevano e si fondevano in modo incerto, per poi disfarsi di nuovo in strutture e figure differenti, anche se rigorosamente bianche, tutte bianche come la neve, come la lana dei materassi. Soffici come fiocchi di bambagia.
La prima nube sapeva bene ciò che voleva e si manteneva compatta; aveva una figura riconoscibile, una faccia, si potrebbe dire, e un corpo… un corpo… indescrivibile, che nemmeno la rarefatta atmosfera himalayana poteva concepire.
Eppure quelle forme sinuose e lussureggianti delle torride terre del sud apparivano misteriosamente sacre, in mezzo a quelle severe valli montane; come se fossero state santificate dalla purezza adamantina dei cieli himalayani.
Forme insediate nel cuore di ogni uomo.