Quello che c'è tra di noi
INCIPIT
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
Ripeto il concetto di amore (sostantivo) e il concetto di omosessuale (aggettivo), perché è in questo accostamento che si differenzia dalle altre.
Non è un’antologia di racconti gay, una definizione che convenzionalmente indica i testi di un gruppo di autori omosessuali sui temi più disparati, quanto piuttosto una raccolta di autori disparati chiamati a confrontarsi col tema dei sentimenti gay. Un procedimento quasi inverso, dunque, e che prescinde dall’orientamento degli scrittori coinvolti.
Va anche detto che il tema scelto è di quelli infidi e scivolosi, perché l’amore è fatto di quotidianità, di piccoli gesti, di banalità divise per due. Niente di esaltante da un punto di vista letterario, ma fondamentale dalla prospettiva personale perché è proprio in queste piccolezze che molti di noi trovano una componente essenziale della propria vita.
E la sfida per l’autore è proprio quella di confrontarsi con queste storie minime ma altamente significative per chi le sperimenta sulla propria pelle. Ecco allora che in questo libro incontriamo coppie che preparano pranzi per i genitori come offerta di conciliazione, giovani che accompagnano l’amica del cuore in vacanza ma con l’ansia di ritrovare l’innamorato al ritorno, uomini che scrivono lettere agli amici lontani, due ragazze che si amano fra gli scaffali delle biblioteche e vicini di casa che si scambiano di appartamento nella speranza di alleviare i propri dolori in una cornice differente.
Accanto a queste vicende però scopriamo, a sorpresa, che questo libro parla anche di morte. Continuamente. Ci sono suicidi, funerali, morti ammazzati, lunghe malattie irreversibili, attentati annunciati, violenze quotidiane.
In un paese come il nostro, nel quale nessuna coalizione politica abbia mai avuto il coraggio di esporsi in maniera chiara e inequivocabile a favore dei diritti degli omosessuali, nel quale non c’è settimana senza che un prelato non lanci condanne nei confronti della comunità omosessuale e nel quale, con un’operazione linguistica arbitraria e spregevole, è ormai passato il concetto che gay e famiglia siano termini contrari e in guerra fra loro, in questo paese dunque, temo sia indicativo il fatto che molti degli autori abbiano sentito l’impulso di utilizzare la tragedia per riscattare la moralità dell’amore omosessuale. Perché è nel dolore che torniamo a essere tutti uguali.
Oddio, mi viene pena da solo per aver scritto quest’ultima frase. Ancora a questo stiamo? Alla scena finale di Philadelphia con il filmino in super-8 in cui i bambini sono bambini, non c’è nessuna differenza, hanno tutti lo stesso diritto di vivere appieno la vita, di godere della felicità? Ma erano gli anni Ottanta. Sono passati due decenni. Davvero l’Italia è ferma là?
Sì, signora mia, ho paura di sì. Faccia ciao con la manina al resto del mondo che ci sta superando in corsa.
Non credo sia un caso che tanti autori abbiano sentito questa esigenza di pathos. È uno dei compiti della letteratura registrare i sentimenti e le ansie contemporanee. Ed evidentemente questa è l’aria (malata) che si respira.
Oh, ma non spaventatevi. Questa è solo una delle tante letture possibili. Nel caso specifico, la mia. Tuttavia ho sempre considerato le antologie l’equivalente letterario della lotteria. Molte voci, molte interpretazioni: alcune ci convincono, alcune ci deludono, alcune arrivano anche a infastidirci, alcune ci sembrano splendide e illuminanti. Non sai mai cosa ti riserva il prossimo racconto. E il bello a mio avviso è proprio in questo movimento oscillatorio, questo confronto continuo con opinioni diverse.
Coraggio, è il vostro turno.
Allungate la mano e pescate.
Matteo B. Bianchi