Ricordi d’Africa
Ricordi d’Africa
Due racconti di una donna sulle donne d’Africa, a ribaltare gli stanchi canoni occidentali: per la piccola Munuba l’uomo nero è una elegante signora bianca che la osserva dal giardino; e le seducenti senegalesi, emancipate e appassionate, sono la autentica energia del Paese.
Una scrittura tra profumi e colori di una terra sorprendente.
Il suo ultimo romanzo è D’amore e d’odio, Frassinelli 2008.
INCIPIT
In viaggio con Aissatou
Quando la lancia si stacca dall’imbarcadero, mentre si allontana dal porto di Dakar e l’Atlantico si apre verso l’Africa nera, io mi trovo nel particolare stato d’animo di chi si accinge a compiere un pellegrinaggio: sto viaggiando sulla rotta di un olocausto dimenticato dall’occidente.
Fra i miei compagni di viaggio due afro-americani, visibilmente presi dal “gran ritorno” alla terra dei padri. In tanti sono tornati negli anni che vanno dalla fine della prima guerra mondiale a oggi, per ricordare al mondo che la storia dei neri non comincia nelle piantagioni di cotone dell’America.
La traversata dura poco. L’isola è vicinissima. Proprio questa sua vicinanza con la terraferma e la posizione strategica davanti al porto ne fece in epoche meno lontane di quanto vorremmo uno scalo obbligatorio per le navi che trasportavano gli schiavi verso la sponda opposta dell’oceano.
Eppure sembra estremamente remota, Gorée. Silenzio e sole. Strade di sabbia dove il piede affonda e i passi diventano faticosi. Tenui, quasi sbiaditi i colori delle case coloniali con i balconi di legno. Non ci sono venditori nei vicoli, tranne un ragazzino che offre collane di conchiglie e magliette viola.
La Casa degli schiavi – oggi museo nazionale – è il cuore tragico dell’isola. Un portico monumentale, un cortile. E poi l’edificio che ha visto passare generazioni e generazioni di uomini razziati in tutto il continente per essere deportati oltre oceano: sotto questo arco di pietra sono passati i massicci bantu e i fieri mandingo, gli enigmatici peul e i magnifici wolof e i toucouleur e gli yoruba e i douala e gli haussa e i lebu e i balante e i serere, tutta l’Africa ha attraversato questa porta. Qui venivano selezionati gli individui, qui i nuclei familiari venivano raccolti e separati prima dell’imbarco. Il custode ci mostra le celle con le catene di ferro infisse ai muri: questa era la stanza delle giovani donne, questa la stanza dei bambini, e questa la cella dei recalcitranti.
D’improvviso, in fondo a un corridoio, si apre un vano, quasi una feritoia, che dà direttamente sul mare: la fenditura da cui venivano imbarcati gli schiavi e gettati in acqua i cadaveri, inutile zavorra, cibo per gli squali.
L’Atlantico è una luce azzurra che batte contro il gradino.