Rosso Novecento
Girolamo De Michele
Tommaso De Lorenzis
L’Europa, l’Italia, il Mezzogiorno nel Novecento sono stati attraversati da conflitti sociali aspri che hanno mutato il carattere degli Stati e migliorato sensibilmente le condizioni di vita materiale e spirituale di decine di milioni di esseri umani. Lo scontro tra le classi, tra i gruppi sociali, ha coinvolto donne e uomini nei sentimenti e nelle viscere. Le loro sofferenze, la loro esaltazione hanno nutrito pagine di letteratura e il grande cinema. Da un po’ di tempo a questa parte, parlarne è démodé. Chi vive solo del presente, ancorché modesto ed incerto, chi non ha occhi aguzzi da poggiare su un futuro, prova fastidio per il passato. Non aiuterebbe a vivere. Come se lo smarrimento della memoria fosse un dolce nutrimento per sopportare uno stato di cose che poco o nulla soddisfa. Mah! Sembra più una resa ad una trionfante mediocrità, piuttosto volgaruccia.
Nel recente passato in tanti hanno consumato la loro vita nella ricerca quotidiana del pane e del conoscere. Oggi le cose stanno diversamente. Lo racconta in versi il poeta e musicista pugliese Vittorino Curci nella sua Allegoria di primavera (Bosco delle noci): “Avevamo fame quindi, /ci diedero da mangiare. / Comunicavamo a gesti, / ci diedero la scuola. /Ora abbiamo il cibo / ma non abbiamo fame, /abbiamo le parole /ma non sappiamo che dire.”
La Puglia si distende su una campagna splendida e differenziata assai, così come diversi sono le sue città e i numerosi borghi separati tra loro da chilometri di oliveti secolari, da filari di viti a tendone e ad alberello, da campi geometrici coltivati ad ortaggi, contesi da aree industriali con enormi e sgraziati capannoni, spesso abbandonati nella ricerca affannosa di un riuso nei settori del commercio e del turismo. La campagna lungo la costa, prima del secolo scorso, era dominata da acquitrini e da paludi malariche, nelle aree interne l’olivicoltura ebbe la meglio sui pascoli bradi solo nell’Ottocento. Protagonisti delle profonde trasformazioni rurali, autori del variopinto paesaggio agrario pugliese sono stati i braccianti con il lavoro, con le lotte sindacali e politiche.
Il libro vuole essere un omaggio a questa classe sociale oggi scomparsa come tale, ai cafoni affamati di terra ma considerati animali da soma. Li muovevano cose che non avevano, che agognavano: la certezza del pane, la sicurezza di un reddito ed anche la voglia di dignità, di essere trattati da persone. La Puglia ha conosciuto grandi movimenti di massa dagli operai agli studenti, ma per decenni e decenni sono stati i braccianti il nerbo delle classi subalterne e del loro riscatto. La crescita civile dei grandi borghi e dei piccoli paesi, dal Tavoliere al Salento, è dovuta a questa classe sociale, ai suoi capilega, che ritenevano naturale battersi per gli altri e quindi per sé. Raramente si esprimevano in prima persona, abitualmente dicevano: “noi”. Nel libro si parla poco dei grandi dirigenti nazionali, Di Vittorio è appena sfiorato. Al centro della trama sono donne e uomini comuni, biografie “minori” più vicine, per modo di sentire e comportamenti quotidiani, al popolo umile, minuto. Emergono caratteri forti, personalità eccezionali che non perdono mai il contatto con le cose concrete, con i sentimenti dei loro simili. Uomini lontani anni luce dai Masaniello del sottoproletariato di ieri e della borghesia rapace dell’oggi. I capitoli del libro percorrono le strade di Puglia, fermandosi in alcuni centri urbani, sfiorandone altri; la scelta è discutibile ma risponde ai bisogni di sintesi e di esemplificazione. Un posto a parte trova Tommaso Fiore. Conversava con Benedetto Croce nella villa di campagna dell’editore Laterza e al contempo sapeva farsi ascoltare dai cafoni; si oppose al fascismo, subendo il confino e il carcere, ma, ritrovata la libertà, non chiese prebende. I giovani che nel ’68 avevano poco più di vent’anni devono a Tommaso Fiore conoscenza, spirito di ricerca, tensione etica ed audacia politica.