Satyricon & Satiricon

Satyricon & Satiricon

copertina
anno
2008
Argomento
Collana
Categoria
pagine
152
isbn
978-88-6266-058-7
13,30 €
Titolo
Satyricon & Satiricon
Prezzo
14,00 €
ISBN
978-88-6266-058-7
Il Satyricon ha sempre suscitato in me, oltre alla meraviglia per quell’esplosione di originalità e di bellezza letteraria che rappresenta, il desiderio di cimentarmi con la traduzione di esso e il rammarico per la sua incompletezza. Da ciò la tentazione non certo d’un risarcimento alla pari, quanto d’un servizio da rendere per la fruizione di quel capolavoro.
Ho perciò inventato un principio e una fine del romanzo, che ne è privo, ed ho gettato dei ponti narrativi tra un frammento e l’altro. Un arbitrio vero è stato trasportare tutta l’opera ai nostri giorni. Ma in questa operazione filologicamente scorretta sono stato guidato dalla volontà di sottolineare ancor più la modernità di questo testo fondamentale.
Luca Canali
Luca Canali ha insegnato Letteratura latina nelle Università di Roma e di Pisa. Ha tradotto l’intera opera di Lucrezio, Virgilio, Petronio, Catullo, Tibullo, Properzio, Persio, Lucano, e inoltre Odi e Epodi di Orazio, Amori e Fasti di Ovidio, e Stazio, Prudenzio, Petrarca latino.
Ha esordito come poeta sulla “Fiera Letteraria” di Angioletti e Ungaretti.
Ha pubblicato poesia, saggistica, narrativa. Con Manni i volumi Potresti averli già incontrati a una fermata d’autobus (2004), L’innocenza dei colpevoli (2006), Archivio rosso (2007).

INCIPIT
 

Sono di sangue misto, ma cittadino greco del Pireo, il porto e il polmone di Atene, come il Partenone ne è l’anima e la memoria. La città è invece diventata un anonimo intreccio di brutte strade, case impersonali, e dovunque lamiere d’auto. Forse è dalla mia genealogia meticcia che ho ereditato il carattere vagabondo, la curiosità per ogni esperienza lecita o illecita, la passione per tutte le letterature, il disprezzo per l’arida praxis e la tediosa routine, il basic istinct a volte aggressivo, altre volte tenero e vulnerabile. Il mio nome è Aristotele, che alcuni pensano significhi “la miglior fine” – e non so se questo sia fausto o sinistro presagio –, ma tutti mi chiamano Aris per fare piu presto, dato che oggi tutti vogliono far presto qualunque cosa, concludere un affare, rubare, accumulare soldi, possedere una donna, eliminare un nemico.
Mio nonno paterno, tedesco, ex pugile, durante l’ultima guerra mondiale si era arruolato nelle SS che a Cefalonia sterminarono migliaia di soldati italiani. Di lui so soltanto che era come tanti altri tedeschi, biondo, occhi celesti, corpo di atleta. S’innamorò d’una ragazza araba venuta nelle isole greche con il padre mercante di tappeti. Per lei disertò e visse nascosto nei boschi ai confini con l’Albania. Alla fine della guerra – di cui non so niente e niente voglio sapere perché le guerre, tutte le guerre, mi fanno schifo –, sposò la ragazza, ne ebbe un figlio, mio futuro padre, impiantò una palestra pugilistica a Patrasso, poi una meglio attrezzata ad Atene. Mio padre, crescendo, le donne se lo disputavano per la sua strana bellezza fra tedesca e araba. Cinico, lo definivano, ma sesso rovente e testa di ferro. Studiò rabbiosamente e fece carriera, prima nell’Università, poi in politica. Il suo odio per la gente esplose quando suo padre fu rapito e soppresso insieme con la giovane moglie – non s’è mai saputo da chi, forse da agenti segreti ebrei o da giustizieri comunisti al corrente di qualche brutto segreto del suo passato nazista. La malvagità di mio padre era un’affermazione del suo potere e insieme la vendetta contro un mondo che giudicava irredimibile. Lo stesso si dica per il sesso: i coiti – mi informava con parole scelte, giacché disprezzava il turpiloquio – erano per lui battaglie vinte, oltre che orge di piacere carnale a spese, o più spesso per diletto, di signore prosternate ai suoi piedi di uomo colto, fascinoso, autoritario, venuto dal nulla con tutta l’aggressiva volontà d’una rivincita sociale. Se si nasce buoni – io credo nel dna – si può diventare duri, forse anche cattivi, ma non crudeli, per le avverse vicende della vita, ma solo in superficie: allora la cattiveria ti si incrosta addosso come un optional necessario alla sopravvivenza; se nasci cattivo, invece, la bontà che talvolta esibisci è solo caccia alla popolarità o vacanza dalla tensione mentale e psicologica che le indoli malvagie e aggressive devono continuamente sopportare. Mio padre era invece coerente; nato malvagio, non lo nascondeva, anzi l’ostentava: la tragedia dei suoi genitori era stata la molla che aveva scardinato ogni sua inibizione “morale” e messo a nudo la sua vera natura. Nell’Università prima, nei Palazzi del potere poi, governava dispoticamente un harem di ragazze, fossero allieve o impiegate, ma anche collaboratrici di alto rango e mogli di diplomatici di tutte le nazionalità.
So dunque di chi sono figlio, cioè chi è mio padre, rimasto poi stecchito durante una performance sessuale troppo intensa, ma non ho mai saputo con certezza chi è mia madre. Al contrario di mio padre, non amo il sesso quando ti scuote, ti fa grugnire come un maiale, con tutto il rispetto per i maiali, e poi ti lascia come uno straccio, senza più voglia di vivere. O meglio quel sesso lì non lo rifiutavo, piaceva soltanto alle mie palle. Ho invece avuto un amore pieno di dolcezza, oltre che di desiderio, un amore di quelli che ti lasciano felicemente infelice, o infelicemente felice, geloso, ansioso d’un nuovo incontro, non necessariamente sessuale, atterrito al pensiero di essere abbandonato. La mia amata si chiamava Bacchis, una giovane sposa proveniente dalla Tessaglia, terra di streghe. Ma un giorno il suo uomo ci sorprese abbracciati sulla branda nella mia tana. Puntava un revolver contro di me, e io non volevo morire. Avevo un coltello – nei vicoli intorno al Pireo bisogna sempre averne uno a portata di mano –, mi sono buttato a terra schivando lo sparo, mentre Bacchis urlava e singhiozzava, e dal basso ho squarciato il ventre di quello sconosciuto, anche se aveva ragione lui, ma la posta in gioco era troppo alta, la sua vita per la mia. Fuggendo, udivo le grida di lei, maledizioni scagliate contro di me: dovevo aspettarmelo da una streghina tessala, o forse lei voleva solo difendersi simulando un tentativo di rapimento e di stupro da parte mia. Le ultime parole che riuscii a cogliere, con orecchio ottuso dal sangue che vi tumultuava dentro, furono un’invocazione al dio Priàpo perché mi rendesse impotente per tutta la vita.
Il marito di Bacchis, l’uomo che avevo ucciso, non era uno qualunque, ma un capo della polizia. Dovevo dunque cercare uno scampo durevole e sicuro.
All’Università avevo pochi amici, mi consideravano uno spostato, un balordo che viveva fuori dalle regole, cui invece quei giovani yuppies si attenevano con sussiego. Mi vedevano talvolta ubriaco, o trasognato per qualche tirata di “erba”. Seppi che la polizia mi cercava dovunque, e aveva anche spedito fonogrammi alle frontiere. Fuggii tenendomi lontano dalle strade principali, attraversando boschi e montagne, elemosinando cibo dai pastori. In pochi giorni di marcia affannosa raggiunsi la frontiera con l’Albania riuscendo a eludere la sorveglianza delle guardie di confine. Raggiunsi Tirana dove c’era l’inferno contro Berisha e le Finanziarie che avevano buttato sul lastrico migliaia di risparmiatori; meglio così, lì nessuno mi avrebbe trovato. Ma ero troppo stanco per adattarmi a una situazione come quella. Pensai all’Italia, alla Magna Grecia, e al recente invito d’un amico svizzero che possedeva una villa sulla costa amalfitana. Ne conservavo ancora il biglietto da visita. Rianimato da quel pensiero, mi rimisi in marcia verso la costa, sacco in spalla con qualche indumento, un paio di libri, e le poche dracme che m’erano rimaste. Dopo vari segnali inutili, la mia richiesta di autostop fu accolta da un camionista che mi fece salire di buon grado accanto al posto di guida. Aveva voglia di chiacchierare, e certo lo delusi, scambiando con lui solo qualche parola, poi fingendo di addormentarmi, mentre lui straparlava di tutto, Berisha, i ladri delle Finanziarie, la necessaria insurrezione, il rimpianto della dittatura comunista di Hoxa. Io a occhi chiusi pensavo ad altro, per esempio a chi fosse mia madre, forse Lula, la nostra domestica zairese, sposata poi con un tizio insignificante, e che incontrai una sola volta tanti anni fa mentre una mattina andavo a scuola di malavoglia: ricordavo chiaramente una Citroen “due cavalli” che mi aveva affiancato, fermandosi a qualche metro davanti a me. Attraverso il finestrino vidi sfavillare grandi occhi e denti abbaglianti. Riconobbi Lula che scese dall’auto emozionata: «Come sta il mio piccolo Aris?», passandomi una mano sui capelli per ravviarli, o forse carezzarli. L’ometto al volante, senza spegnere il motore e dando segni d’impazienza, la chiamò aspro: «Dài, Lula, piantala con quel marmocchio.» Sapevo chi era: un piccolo burocrate, smilzo, viso grigio, abito di grandi magazzini troppo largo per le sue spalle strette, sgargiante cravatta arabescata, impiegatino accidioso e bilioso promosso a un grado superiore per raccomandazione di mio padre affinché sposasse Lula, liberando lui da quell’impaccio, ora che io ero grandicello, e lui poteva così ricominciare a portarsi a casa bagasce del gran mondo, senza che ci fosse Lula, che all’udire i miagolii provenienti dalla cosiddetta “stanza del talamo”, si asciugasse le lagrime con il grembiule, cercando di fare chiasso perché io non udissi quei lagni di bestie in fregola. Ma anche a lui, a mio padre, ripensavo, con distacco ma senza rancore, ricordando la sua pretesa di “raddrizzarmi”, perché a diciotto anni continuavo a frequentare ragazzi del porto semianalfabeti invece che figli di notabili “acculturati”, diceva lui, e che io spesso invece pestavo appena potevo, anche per semplici divergenze letterarie, e loro correvano a casa: «Aris mi ha picchiato» o «Aris mi ha spaccato il labbro e tu, papà, devi dirglielo al padre di Aris». Dunque mio padre mi voleva frustare, ma io lo prevenni, gli saltai addosso riempiendogli la faccia di pugni, e lui cadde in terra quasi svenuto, ma subito si rialzò, corse in bagno a inzuppare il fazzoletto di batista, e tornato tamponandosi il naso che sanguinava, mi guardò stupito, quasi compiaciuto: «Così mi piaci Aris. Cattivo. Devi picchiare per primo, così farai strada, sennò gli altri ti mettono i piedi sul collo, invece devi piantarli tu sul collo degli altri, e tenerli sotto, far carriera e arrivare più in alto che puoi.» Ma della carriera non mi fregava niente, m’importava leggere i poeti, amare chi mi amasse, e girare il mondo, anche se – in questo mio padre aveva ragione – è un mondo sempre più stupido e brutale, con la sola passione dei quattrini e del potere.
Tutto questo mi passava per la testa, mentre sedevo a fianco del camionista che continuava a parlare, senza che io ascoltassi una sola parola. Ora doveva aver toccato un argomento bollente, perché sornione e feroce mi spiegava come si usa un Kalashnikov, e che bisogna sparare al ventre se si vuole far soffrire più a lungo il nemico o lo sbirro morente. «Ci servono giovani come te per la nostra causa contro i ladri di regime», cercava di indottrinarmi, ma puzzava d’alcol – slivoviz, credo, che ogni tanto tracannava dalla bottiglia – e di sudore rancido, mentre i suoi occhi luccicavano ora d’un bagliore malsano. Continuando a guidare con la sinistra, mi posò il braccio destro sulle spalle e cominciò a carezzarmi una guancia con la sua manona pelosa. Farfugliava un po’, certo era ubriaco: «Sei un bel giovanottino, pelle bruna di mulatto, occhi celesti e capelli biondi e lunghi come una verginella da romperle la fichina.» Parlava perfettamente la mia lingua, lui albanese, e non era affatto idiota, forse era un capomafia dei traghetti, e ora mi aveva involontariamente fornito una certezza, chiamandomi mulatto. Nessuno l’aveva mai fatto. Lula era dunque mia madre? Ritornando ad Atene l’avrei cercata, pensai. Ma avrei potuto mai tornare ad Atene? Mi vennero in mente i versi di quell’antico poeta italiano, Cavalcanti, studiati all’Università: “Perch’i’ no’ spero di tornar giammai”. Ma ora dovevo uscire da quella situazione, la manaccia era scesa dalla guancia al collo: «Ti ringrazio del passaggio, amico, ma levami quella zampa da dosso, io scendo qui, e alle verginelle la fichina gliela rompo io con la verga che ho dentro i jeans e mi viene buona anche per le spintrie come te», gli recitai fra l’irritato e lo scherzoso.
Zogu – questo era il suo nome, «nome di re» mi aveva detto – rise fragorosamente e: «Lo sapevo che eri in gamba. Ma che vuol dire spintria?»
«È latino, e vuol dire checca passiva. Il contrario di sellario, che significa checca attiva.»
Ora, perplesso, ma sempre di ottimo umore, Zogu mi batté la mano sulla spalla, frenò, e mi spalancò lo sportello. «Allora sbagli, sono sellario anch’io, e spintria doveva essere tuo padre, se pure ne hai avuto uno e non sei figlio di una qualche troia nera.»
Era il momento di filare, ma in buoni rapporti con lui, non si sa mai per il futuro: «Ciao allora, sellario!»
«Ciao, mulatto!», si congedò con una risata rimettendo in moto.