Cinque racconti di altrettanti scrittori stranieri, ospiti della Regione Puglia su iniziativa del Premio Grinzane Cavour, a testimonianza del loro soggiorno in diverse località pugliesi; differenti chiavi di lettura di una terra ricca di suggestioni, forti valori, espressioni culturali ed artistiche uniche.
Alfredo Conde, nella Valle d’Itria, tra trulli, costruzioni barocche e natura selvaggia, redige la sua personale cronaca dell’ospitalità attraverso le suggestioni suscitate in lui dall’odore del mare e dal colore degli ulivi.
Mempo Giardinelli, che soggiorna nell’Appennino Dauno, immagina una storia d’amore tra due giovani sullo sfondo dei palchi e delle gallerie del Teatro Petruzzelli, rendendola struggente come un’opera lirica.
Björn Larsson descrive un Salento antico e vitale, soffermandosi sul fascino dell’albero della vita nel mosaico della Cattedrale di Otranto che da secoli, con la stessa forza, si rivolge alle genti di Oriente e Occidente.
Vladislav Otrošenko nella città di Taranto ritrova modi di essere, comportamenti e tradizioni a lui familiari.
Andrea Stàikos, nello scenario di Brindisi, coglie gli odori della terra pugliese, i toni del giallo che dominano il paesaggio di questa regione, ma anche il rosso della passione dei suoi abitanti.
Five accounts by foreign writers that tell of their time spent in various areas of Apulia.
In diverse ways, these authors, that come from different countries, distant one from another, bring to bear their experience as humans along with their cultures. We are provided with different points of departure for appreciating the same inspiring and honourable land, that is both culturally and artistically unique.
Alfredo Conde from Valle d’Itria with its “trulli”, baroque buildings and wild countryside, provides his personal account of the sense of welcome he experienced with the enthusiasm incited in him by the scent of the sea and shades of the olive trees.
Mempo Giardinelli, whilst staying in the Appennino Dauno, dreams up a story of two young lovers with the background of the stage and galleries of the Petruzzelli theatre rendering it as full-bodied as an opera.
Björn Larsson tells of an ancient and vibrant Salento extolling the enchanting tree of life in the mosaic in Otranto Cathedral, which for centuries, with an enduring strength, faces the Orient and the West.
Vladislav Otrošenko in Taranto re-discovers ways of life, customs and traditions he finds familiar.
Andrea Stàikos, in the landscape around Brindisi, gathers the scents of the land, the shades of yellow that dominate the countryside of this region, but also of red, the colour of the inhabitants’ passion.
Incipit dei cinque racconti
Alfredo Conde
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Diario dal finibusterrae
Le pagine successive a queste, di prologo e di benvenuto, sono il risultato di alcuni giorni vissuti in Puglia.
Sono trascorsi tali giorni, andando su e giù per il tacco dello stivale italiano, là nel finibus terrae orientale europeo. Per essere più precisi nella sua Valle d’Itria, quella dei trulli. Questi giorni pugliesi sono stati il giusto risultato di un invito ricevuto dal caro Premio Grinzane Cavour, per trascorrere lì alcune settimane. Visto che sono già adulto e posso dire “caro Premio Grinzane”, posso anche accettare inviti e, pertanto, là me n’andai.
Come vi dicevo, ho trascorso questi giorni andando su e giù. Scrivendo e vivendo. Camminando e scrivendo. Vivendo, che è quello che più mi piace dell’esistenza. È risaputo che c’è gente a cui quello che piace della vita è la sofferenza che sopporta, anche se la vita è l’anticamera della morte e del dolore, è l’angoscia che questa circostanza, unica certezza, provoca. Non è il mio caso, come facilmente dedurrete leggendo queste pagine.
Quando mi hanno detto di andare in Apulia, cioè in Puglia, non conoscevo niente. Sapevo qualcosa di Reggio Calabria ed ero al corrente che una volta arrivato non avrei mai dovuto pronunciare la parola ’ndrangheta. Sapevo anche che era il tacco dello stivale, ma questo era tutto. Conoscevo la forma, ma ignoravo il contenuto.
Vi confesso che non ho mai capito la tremenda attrazione di bere champagne in una scarpa dal tacco a spillo e dalla punta affilata. Alcune persone lo considerano eccitante, ma non è il mio caso. Preferisco un bel calice di cristallo e non sopporto neanche la più piccola possibilità che una qualsiasi bevanda venga alterata, figuriamoci poi se è di qualità. Della scarpa già mi importerebbe meno. Il fatto è che conoscevo la forma, ma non avevo mai badato a nessun altro aspetto se non a quello della sua curiosa apparenza, e ignoravo il resto. Tutto in me era ignoranza e audacia temeraria.
Quando Giuliano Soria mi chiamò per invitarmi a compiere il viaggio, accettai ad occhi chiusi. Subito dopo me ne andai nella libreria Follas Novas, per cercare di documentarmi bibliograficamente per l’avventura. Lungo la strada mi imbattei in Xosé L. Couceiro, professore presso l’Università di Santiago di Compostela, che nel salutarmi mi chiese:
«Qual è il prossimo viaggio?»
«Puglia» gli risposi incerto della pronuncia.
«Accidenti, che fortuna che hai, maledetto! È la più bella d’Italia!»
In quel preciso istante ho capito che non solo desideravo andare fin laggiù, ma che desideravo anche scoprire la Valle d’Itria.
Ora che sono già tornato da quei luoghi, non so se sia vera l’affermazione del mio amico, ma, all’apparenza, sembrerebbe di sì. Non so se la Valle d’Itria sia tra i luoghi più belli e sconosciuti del mondo, ma di una cosa sono certo: non è facile trovare tanti conglomerati urbani che, nonostante siano così vicini gli uni agli altri, risultino così belli e così distinti tra loro.
So anche che la Valle d’Itria ha già conquistato uno dei miei spazi sentimentali, e credo che sarà così per sempre. Lì mi sono fatto degli amici che occupano già questi spazi intimi, nei quali immagazziniamo le sensazioni piacevoli, le conversazioni amene, gli affetti disinteressati e duraturi. Ottavio Albano e Federica, sua moglie, Vittorio Stagnani e Vita, Rosalia Petruzzelli e tanti altri. A tutti loro voglio lasciare la certezza della mia gratitudine e del mio affetto. E ora iniziamo con i giorni pugliesi.
Mempo Giardinelli, La duplice tragedia del Teatro Petruzzelli
L’incendio ebbe inizio non so né in quale giorno, né a che ora, ma fu orrendo. Non ho prove in mano e credo che in questo momento non sia neanche importante. Perché ora, dopo che sono trascorsi già diversi anni, ci sono dettagli che, realmente, continueranno ad essere un mistero o materia di discussione giuridica, anche se per me non hanno nessuna rilevanza. Quella notte spaventosa nell’Anno del Signore 1991 (perché questo è certo: l’incendio avvenne di notte e in quell’anno) Donatella S., di cui preferisco ancora non rivelare l’identità, sapeva che la sua vita era distrutta come i teli e i legni di quel prezioso edificio. Al pari di cellule vive che muoiono in serie, a causa di una pestilenza da laboratorio, così la sua vita giovane e bella fu distrutta: bombardata da lingue di fuoco, acceso da una mano rognosa e maledetta, maledetta per mille volte, maledetta per tutta l’eternità.
Potrei dire che questa storia sia iniziata verso la fine del secolo XIX, nel 1877, quando la città di Bari indisse un concorso per la realizzazione di un anfiteatro destinato alle rappresentazioni di opere e di spettacoli. Il concorso internazionale fu vinto dai fratelli Onofrio e Antonio Petruzzelli, ricchi corsari (come si chiamavano allora quelli che noleggiavano le imbarcazioni per il commercio internazionale) che pagarono quasi due milioni di lire, all’epoca un patrimonio, affinché il loro teatro fosse in grado di competere con La Scala di Milano e con qualsiasi altro teatro del mondo.
I lavori iniziarono nel 1895, secondo il progetto dell’ingegner Angelo Messeni, e terminarono giusto in tempo per l’inaugurazione, il 14 febbraio del 1903, con la messa in scena de Gli Ugonotti di Giacomo Mayerbeer. Dalla capienza di circa quattromila spettatori, con tre piani e una platea, nel pieno centro della città, il Teatro Petruzzelli (chiamato anche Teatro Rosso) in breve tempo si trasformò nel più grande simbolo di Bari e il suo rapido prestigio fu dovuto non solo alle figure che si rappresentavano, ma anche alla meravigliosa acustica della sala, considerata una delle migliori al mondo.
Così come fu mitica la sua fondazione, così anche fu brutale la sua distruzione quella maledetta alba, esattamente il 27 ottobre del 1991, quando in poche ore fu divorato dalle fiamme. Per ironia della sorte, la notte precedente avevano rappresentato la Norma di Bellini; in un secondo tempo alcuni suggerirono che l’incendio fosse stato prodotto in seguito alla scena della pira tra Norma e Polonio, ma non ho mai preso in considerazione l’ipotesi, né l’ho mai ritenuta valida. Quello che so è che prima arsero le capriate dell’ala occidentale, e poi il fuoco si estese come se l’edificio fosse fatto di plastica. Forse confondo qualcosa, ma anche questo ha poca importanza. Dal momento che l’unica certezza è che fu bruciato praticamente tutto e che a malapena rimase la struttura e la parte sociale, diciamo la quarta parte dell’edificio, giusto quella in cui funzionò sempre, e ancora funziona, il Circolo dell’Unione, una specie di associazione di amici di questo teatro, considerato una delle quattro sale più importanti d’Europa per capacità, acustica e prestigio.
Ho detto che lì terminò la giovane e bella vita di Donatella S. Forse ho esagerato e, se necessario, mi scuso. Sebbene sia convinto di non aver esagerato tanto. In fondo, in amore ogni cosa è superlativa, soprattutto se è stato il fuoco ad accendere l’amore e il fuoco ad averlo distrutto.
Björn Larsson, L’albero delle identità
È domenica del ventidue febbraio 2004, subito dopo la messa. Il sacerdote e gran erudito, Grazio Gianfreda, ottant’anni, mi prende saldamente il braccio e comincia a mostrarmi con passione l’albero della vita, il mosaico medievale che copre l’intero pavimento della cattedrale di Otranto. Dalle radici fino alla cima, con dei giri in tondo sui rami, passeggiamo tra il simbolismo religioso e pagano, occidentale e arabo, romano e bizantino, che forma l’albero della vita. Non capisco tutto quello che dice il sacerdote: malgrado alcuni anni di studi la mia conoscenza dell’italiano è ancora troppo rudimentale. Credo, tuttavia, di afferrare l’essenziale. Non è apprendere il significato di ciascun simbolo che mi colpisce immediatamente – anche se ho un sussulto quando su uno dei rami, verso la cima dell’albero, appare l’immagine di re Artù, questo re leggendario di cui nessuno ha potuto stabilire la verità storica ma che viene rappresentato qui, pochi anni dopo la pubblicazione dei testi fondanti di Chrétien de Troyes e di Geoffrey di Monmouth. No, mi colpisce soprattutto essere testimone privilegiato del legame passionale e razionale che collega, oggi, ottocento anni dopo, quelli che hanno creato l’albero della vita e il sacerdote che mi tiene saldamente il braccio. Più tardi, senza fare complimenti, confesso ai miei ospiti che vorrebbero mostrarmi tutto ciò che c’è da vedere in Puglia, che le opere d’arte o perfino il paesaggio di per sé mi interessano poco. Invece mi piacerebbe conoscere i rapporti tra la gente del paese di oggi e i loro monumenti, storie e paesaggi. Ai vecchi che per una giornata intera chiacchierano nella piazza al centro di Otranto, importa – molto, un po’, per niente – che la loro cattedrale custodisca uno dei più bei mosaici al mondo?
Pensano mai agli ottocento martiri di Otranto massacrati barbaramente dai pirati turchi? In fondo sono più incantato dall’incantamento del sacerdote per l’albero della vita al quale ha consacrato buona parte della sua esistenza e sul quale ha scritto numerose opere, che dall’albero della vita stesso.
Vladislav Otrošenko, La metafisica del Sud
1. Il compasso impazzito
Ogni paese del mondo ha il proprio sud, anche quelli che si estendono in lunghezza come la Russia, dove tra est e ovest corrono undicimila chilometri. E in ogni paese del mondo ci sono gli abitanti del sud, i meridionali. Io sono tra questi. Una delle loro caratteristiche è la nostalgia del sud. Una nostalgia che si rivela assoluta. La si potrebbe paragonare alla forza inesorabile che sempre e dovunque obbliga l’ago della bussola ad andare in una sola direzione. L’ago della bussola va verso nord, la nostalgia del meridionale verso sud. Sempre e dovunque.
Me ne sono convinto alcuni anni fa, quando mi è capitato di soggiornare per circa un anno in una città dell’Italia settentrionale, Bassano del Grappa, in Veneto, ai piedi delle Alpi.
Nei primi tempi ho provato una sensazione difficile da descrivere: mi sembrava che il mio compasso interiore fosse impazzito. Indicava qualcosa di completamente diverso da quello che indicava a Mosca. Là io sapevo sempre che il mio sud, dal quale mi sono separato venticinque anni fa, si trova effettivamente a sud, a mille chilometri da Mosca. Mentre lavoro, sono abituato a tener presente questo fattore, come sono abituato a immaginare che lo spazio dell’azione dei miei personaggi sia situato più a sud di me, in quella regione del mondo che in tempi diversi ha avuto nomi diversi, Meotida, Scitia, Sarmazia, Amazonia, Chazaria, Campo Selvaggio(Dikoe pole), Terra dell’Esercito del Don (Zemlja Vojska Donskogo), e oggi si chiama regione di Rostov… A Bassano del Grappa, dove ho scritto il romanzo Il caso della città dell’ingegnere, ambientato nel XIX secolo nelle steppe meridionali della Russia, la mia immaginazione si è improvvisamente scontrata con delle inaspettate difficoltà: non riuscivo a immaginare (perché non riuscivo a sentirlo mentre lavoravo) che le steppe meridionalidella Russia potessero trovarsi a nord del luogo in cui mi trovavo io, oltre le Alpi, l’Austria, la Romania, il Mar Nero. Guardavo fuori dalla finestra: dava a nord, nella direzione in cui adesso si trovava il mio sud; vedevo le vette alpine innevate e cercavo di evocare la stessa sensazione che nasce in me a Mosca, quando mi affaccio alla finestra del mio studio, che dà a meridione. Cercavo di evocare in me la nostalgia per il sud, per le steppe del Don. Questa nostalgia è un elemento fondamentale del mio lavoro. Mi è indispensabile anche quando scrivo di argomenti del tutto spensierati. Ma l’illusione non voleva manifestarsi: non riuscivo a sentire nostalgia del sud concentrandomi su uno spazio che si trovava a nord. Questa anomalia del mio compasso interiore continuò a verificarsi per parecchio tempo, finché una volta non mi accorsi che mi stavano succedendo cose strane.
Il mio appartamento a Bassano si trovava nelle vicinanze di viale Venezia. Ogni mattina facevo una passeggiata per questo pittoresco viale, che sembrava una specie di esposizione architettonica: su entrambi i lati facevano bella mostra di sé le facciate di ville eleganti di epoche diverse. Il viale porta al centro della città e si incrocia con la ferrovia. I binari passano sotto un ponte di pietra, che io di solito percorrevo a passo veloce, perché non c’era niente da guardare; e poi il vento, che insieme ai binari correva nella pianura, come uscendo da una stretta gola, in quel punto soffiava in modo troppo penetrante. E tuttavia, da un certo momento in poi, cominciai a fermarmi sul ponte sempre più spesso, restando involontariamente a guardare quel vasto spazio pianeggiante, verso il quale volava il vento e si perdevano i binari. Il sud era lì. Mi accorsi che stavo guardando quello spazio con la consueta nostalgia di un uomo del sud che per caso si ritrova al nord.
Andreas Stàikos, Antonelliana
Giovanni P., il frugalissimo Giovanni P., non ricordava un’altra mangiata del genere in vita sua né ricordava di essere mai rimasto seduto a tavola la bellezza di quasi tre ore e di aver consumato il pasto a un ritmo così lento. Il fatto è che non riusciva a staccarsi dalla conversazione in corso fra i tre uomini rimasti nell’osteria. Anche se aveva inghiottito l’ultimo boccone già da tempo, e ogni sorso del suo vino novello era stato suddiviso in tanti sorsetti più piccoli, lui non si decideva a lasciare l’osteria “L’oblio”, nella piazza centrale della cittadina di Cisternino, nei pressi di Brindisi.
La fama dell’osteria “L’oblio” era dovuta alle saporite pietanze casalinghe che da circa un decennio venivano preparate dalla madre dell’ormai cinquantacinquenne Carlo Saracino. Una madre, peraltro, che a Cisternino non si era mai vista, né la domenica, a messa, e neppure durante le processioni e le sagre che si svolgevano nel circondario per celebrare le grandi festività cristiane. La sua assenza, oltre a non essere passata inosservata, era divenuta oggetto dei commenti malevoli dei devotissimi abitanti della cittadina, i quali avevano persino coniato una specie di motto che con il tempo si era diffuso in tutta la regione acquisendo la forza di un proverbio: “Da pia donna fatti benedire e da empia donna fatti nutrire”. Dal canto suo anche Carlo, quel figlio degenere che non aveva esitato a seppellire viva la propria genitrice tra le quattro mura della cucina di una casa che nessuno, né la luce del sole né lo sguardo fugace di un passante, aveva mai visto in quanto gli spessi tendaggi restavano sempre chiusi, era diventato il protagonista di battute velenose come la seguente: “Ti nutra la madre di un figlio degenere”, a sua volta divenuta popolare in tutte le Puglie.
Quella sera, il 23 luglio del 1688, Carlo, al termine di una lunga giornata che aveva visto numerosissimi avventori affollarsi nella sua osteria, attratti dagli straordinari spaghetti all’aragosta annunciati sin dalla sera prima, dopo aver congedato anche l’ultimo cliente, si sedette a tavola con i suoi due amici fraterni, nonché finissimi conoscitori di tutti gli avvenimenti più insignificanti e meno conosciuti di Cisternino, per continuare la serata a porte chiuse e festeggiare insieme bevendo un bicchierino di troppo, o anche due, tre, dieci bicchierini di troppo, alla salute di una misteriosa Antonelliana che nessuno aveva mai visto e della quale nessuno aveva mai sentito parlare fino a quel giorno.